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Trump 2 va alla guerra dei dazi; Netanyahu a Washington, tregua Israele-Hamas tiene

02
Febbraio 2025
Di Giampiero Gramaglia

L’uomo che si vanta di essere artefice di pace scatena, meno di due settimane dopo il suo ritorno alla Casa Bianca, la guerra dei dazi: a partire da sabato primo febbraio, Donald Trump ha imposto dazi del 25 % sull’import dal Canada – fa eccezione il petrolio, gravato del 10% – e dal Messico e un addizionale 10% sull’import dalla Cina già ‘tassato’.

La risposta è quasi immediata: il premier canadese Justin Trudeau mette dazi del 25% sull’import dagli Usa pari a 155 miliardi di dollari; e la presidente messicana Claudia Sheinbaum Pardo ordina ritorsioni equivalenti al danno subito. C’è il rischio di un’escalation, perché le misure di Trump prevedono un incremento dei dazi in caso di ritorsioni, come se i suoi interlocutori fossero destinati a subire e basta.

Per procedere, il magnate presidente dichiara lo stato di emergenza economica e tira dritto nonostante il rischio che i dazi vicendevoli provochino un aumento dei prezzi e, quindi, una riprresa dell’inflazione. Trump dice di aspettarsi “qualche problema a breve termine”, ma ha fiducia che “gli americani capiranno” e promette loro che “diventeranno più ricchi”, come se i soldi dei dazi finissero nelle loro tasche. Il Washington Post fa l’elenco dei prodotti i cui prezzi potrebbero aumentare: si va dai pomodori messicani alle t-shirts cinesi, passando per le auto elettriche e non e per l’energia, che da sola fa aumentare tutto.

I toni si surriscaldano. Mark Carney, ex governatore della Banca del Canada, favorito nella corsa alla successione di Trudeau, bolla Trump come “un bullo” e fa sapere che gli “risponderà dollaro per dollaro”. E, intanto, il magnate presidente minaccia altri partner commerciali Usa, in particolare i Paesi europei, che hanno trattato – dice – “molto male” gli Stati Uniti. Per il New York Times, c’è “la prospettiva di una rovinosa guerra commerciale”. E Politico avverte che “Trump vuole lanciare una guerra commerciale all’Unione europea con un blitz sui dazi”, dopo avere piazzato – titola sempre Politico – “una bomba radioattiva sotto il graccio della Groelandia”, con la minaccia di annessione – o di invasione -.

La risposta dell’Ue è ferma, ma sotto tono, affidata a un portavoce della Commissione europea, forse in attesa che i leader dei 27 si vedano oggi nella campagna belga per un vertice informale e discutano di come porsi rispetto all’alleato divenuto improvvisamente scomodo e aggressivo. “Resteremo fedeli ai nostri principi – ha detto il portavoce europeo – e, se sarà necessario, siamo pronti a difendere i nostri legittimi interessi. E, intanto, Elon Musk lancia, provocatoriamente, un movimento ‘Make Europe Great Again’.

Medio Oriente: la tregua tiene, ostaggi e palestinesi tornano a casa
In Medio Oriente, la tregua tra Israele e Hamas tiene fra mille screzi e la liberazione di ostaggi prosegue come stabilito: in coincidenza con l’avvio dei negoziati per la seconda fase della tregua, concepita in tre tappe, il premier israeliano Benjamin Netanyahu arriva a Washington e sarà, martedì, alla Casa Bianca.

Ieri, tre ostaggi, tre uomini, sono stati restituiti alle famiglie, in aggiunta agli otto – tre israeliani e cinque thailandesi – già liberati in settimana, in cambio della scarcerazione dalle carceri israeliane di circa 300 detenuti palestinesi complessivamente.

Le liberazioni di sabato sono state meno caotiche e ‘spettacolari’ di quelle di metà settimana, che avevano suscitato, per le loro modalità, proteste e indignazione. La prima fase della tregua, scattata il 19 gennaio e destinata a durare sei settimane, prevede la liberazione complessiva di 33 ostaggi catturati da Hamas e da altre sigle palestinesi il 7 ottobre 2023, in cambio del rilascio di circa 2000 detenuti palestinesi.

Gli ostaggi liberati domenica erano l’americano Keith Siegel, 65 anni – sua moglie e i suoi due figli piccoli sono probabilmente morti in prigionia -, rilasciato a Gaza, e il francese Ofer Kalderon e Yarden Bibas rilasciati a Khan Younis. Due cittadini statunitensi sono tuttora tenuti in ostaggio: Sagui Dekel-Chen, 36 anni, la cui liberazione è attesa in questa prima fase della tregua, e il soldato Edan Alexander, 21 anni, che dovrebbe essere liberato nella seconda fase.

Il cessate-il-fuoco produce effetti positivi sul fronte umanitario. Centinaia di migliaia di palestinesi risalgono dal sud al nord della Striscia verso le loro case, spesso ridotte in macerie, dopo un anno e più di vita da profughi. E’ stato pure riaperto, sia pure solo in uscita, il valico di Rafah, al confine con l’Egitto: centinaia di palestinesi, fra cui anche miliziani di Hamas, feriti in combattimento, vanno a ricevere cure in Egitto e altrove.

Il futuro della Striscia di Gaza e dei palestinesi resta, comunque, incerto: Trump e Netanyahu ne parleranno fra di loro, ma Egitto, Giordania, Qatar, Arabia saudita ed Emirati arabi uniti hanno già respinto l’ipotesi di svuotare la Striscia e di deportarne gli abitanti, ventilata a più riprese da Trump, dicendosi invece pronti a lavorare insieme su una soluzione a due Stati (che gli Usa e Israele, oggi, non vogliono).

Ucraina, Somalia, Venezuela, altri fronti esteri
Il Medio Oriente non è l’unico fronte estero che vede protagonista l’Amministrazione Trump. Resta, però, un po’ defilata l’Ucraina, dove, a parte i consueti bombardamenti notturni, che spesso fanno vittime civili, continua l’avanzata sul terreno degli invasori russi. In attesa d’una svolta diplomatica, che per ora non si vede e che viene adesso collocata tra i cento giorni e i sei mesi, tra la primavera e l’estate, l’ex guru di Trump Steve Bannon avverte che l’Ucraina rischia di diventare “il Vietnam” dell’Amministrazione repubblicana, se il presidente non dirà basta agli aiuti militari a Kiev.

Intanto, a sorpresa, l’artefice di pace Trump dà ordine di bombardare presunte installazioni dell’Isis in Somalia. Nel suo primo mandato, Trump aveva deciso un’analoga azione dimostrativa in Siria (ma aveva aspettato aprile per farlo). Il segretario alla Difesa Pete Hegseth fa sapere che l’attacco, le cui motivazioni sono fumose, è stato condotto dallo US Africa Command, in coordinamento – dice – con il governo somalo (espressione un po’ peregrina, essendo la Somalia uno Stato fallito peggio della Libia). Si ignora l’efficacia e le conseguenze dell’azione statunitense.

Sempre a sorpresa, Trump apre un dialogo con il Venezuela. La missione a Caracas d’un emissario controverso, ma di sua fiducia, Richard Grenell, porta alla liberazione di sei detenuti statunitensi e all’ok del presidente venezuelano Nicolas Maduro al rientro nel Paese di centinaia di migliaia d’emigrati venezuelano entrati illegalmente negli StatiUniti – spesso proprio per sottrarsi al regime di Caracas -.

Non si capisce come ciò si accordi con la posizione degli Stati Uniti, che considerano il Venezuela una dittatura e non riconoscono la vittoria di Maduro nelle ultime presidenziali; e, in particolare, con l’atteggiamento del segretario di Stato Marco Rubio, molto ostile al regime venezuelano. Usa e Venezuela non avevano più avuto contatti a a tale livello dal 2022.