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Parla Tremonti: «Il “fantasma” si è svegliato. Siamo allo scontro tra fabbrica e moneta»

19
Aprile 2025
Di Alessandro Caruso

(Articolo di Alessandro Caruso scritto per l’Economista, l’inserto del Riformista)
Quello che sta accadendo oggi con le politiche protezionistiche ha origine nei primi anni Novanta. Giulio Tremonti lo aveva anticipato nel suo saggio “Il fantasma della povertà” già nel 1994, analizzando le conseguenze delle scelte della politica, da un lato, e della finanza, dall’altro. Adesso il “fantasma” è tornato, parla americano ed è figlio di quella filosofia mercatista che poneva la finanza al centro di tutto. Anzi sopra a tutto. Ora restano le persone. E a loro è affidata la soluzione del problema.

Iniziamo da un suo libro, Il fantasma della povertà. Nel 1994 lei aveva dato una lettura economica dei rapporti tra Oriente e Occidente che oggi sembra tornata di grande attualità.
«La sintesi era la seguente: i capitali andranno in Asia, l’Occidente esporterà capitali e importerà ricchezza verso l’alto e povertà verso la working class, perderà posti di lavoro e i salari saranno livellati dalla competizione salariale internazionale. C’era poi, sempre a proposito di povertà, l’influenza delle immagini televisive, che cominciavano a rappresentare un Occidente pieno di ricchezza e benessere, con l’effetto di attirare la povertà attraverso l’immigrazione. Quella era l’ipotesi del 1994».

Il fantasma si è svegliato?
«Sì, ha votato repubblicano e si è materializzato nell’operaio di Detroit, il 3 aprile alla Casa Bianca. La sua epopea è rappresentata bene nell’Elegia americana di Vance: prima c’era la fabbrica, ora la fabbrica non esiste più, ma sono rimaste le persone impoverite, operai in difficoltà. Questa è la logica della manovra politica americana, che però è tutta in divenire, perché è stata annunciata in un modo e poi è cambiata negli anni successivi».

E cosa è successo?
«Il primo effetto è stato che il “fantasma” ispirando la politica della Casa Bianca ha bucato la bolla finanziaria: c’è stata un’inflazione di asset causata dalla rottura dello schema globalista ».

Cosa c’è all’origine di questo fenomeno?
«Bisogna andare indietro nel tempo e partire dalla crisi dei subprime, che furono pensati per compensare la working class della perdita subita sui salari. I subprime durano due anni: arriviamo al 2008. Con la crisi assistiamo al passaggio dal G8 al G20. Cosa cambiava? Il G8 parlava inglese, aveva come codice politico la democrazia e come codice economico il Washington Consensus. Il G20 non parlava inglese e abbandonava i codici precedenti. La gestione della crisi fu comunque politica: il governo USA puntò sul mercato, l’Europa sulla exit strategy e la Cina, invece, su politiche keynesiane, avviando importanti investimenti pubblici».

E poi come andarono le cose?
«Superata questa fase, si è posto il problema di cosa fare dopo, e si sono confrontate due linee: quella italiana e quella della finanza. La proposta italiana era sintetizzata nel global legal standard, che presentai anche alla sede del Partito Comunista a Pechino e fu votata anche dall’OCSE. Il senso era quello del passaggio dal free trade al fair trade. Ma prevalse il Financial Stability Board: non servono regole, è sufficiente stampare moneta. E fu fatto. Il punto è che questi interventi, pensati come “pronto soccorso”, durarono per un decennio, tra l’altro un periodo in cui furono inventati i tassi sotto zero. E pensare che Marx, pur ignorando la Bce, diceva che i “tassi a zero sarebbero stati la fine del capitalismo”. Figuriamoci quelli sotto zero…».

E arriviamo a oggi…
«Il discorso sulla povertà, i dazi e i problemi attuali si intrecciano con la storia finanziaria. Basta una manovra finanziaria, come quella che si è verificata, per influire sulla politica dei dazi. Uno stop, in effetti, è venuto proprio dalla finanza. La politica della fabbrica si è scontrata con quella della finanza. Stiamo assistendo al confronto tra fabbrica e moneta».

La crisi fu superata?
«Solo rinviata, creando un’inflazione di asset finanziari».

Secondo lei, che epopea sta seguendo il concetto di globalizzazione?
«Il mondo resta globale, i container navigano negli oceani i simboli e le idee circolano sulla rete. Quella che non c’è più è l’utopia politica della globalizzazione. Io avevo coniato un neologismo più pertinente: mercatismo. Spiegava bene il passaggio dalla triade liberté, égalité, fraternité a quella nuova: globalité, marché, monnaie. Il mercatismo, cioè il mercato sopra e i governi sotto, è stata l’ultima utopia del ’900, ma pur sempre un’utopia. I fatti poi hanno fatto la storia: nel 1989 è caduto il Muro, nel 1994 nasce il WTO, nel 2001 la Cina entra nel WTO, nel 2006 i primi segnali della crisi, la crisi profonda del 2008, la sospensione illusoria della finanza e, adesso, di nuovo la crisi».

Ha ancora senso parlare di populismi?
«Il populismo nasce da un vuoto e dalle paure prodotte dalla globalizzazione, dalla crisi e dagli effetti che questa ha generato. Se si vuole salvare la democrazia, si dovrebbe allineare il voto ai problemi da risolvere. Se la politica è solo nazionale, non è credibile per governare problemi che vengono da fuori. Lo spread, le emigrazioni, le macchine ruba-lavoro sono fenomeni che vengono dal futuro, i governi nazionali non hanno capacità per governare problemi che non hanno una dimensione internazionale e questo porta astensione, paure e populismo. Detto questo, la sinistra ha fallito quando si è identificata con Clinton e poi Obama. Quando si è identificata, cioè, con il mercatismo».

In questo scenario, quale sarebbe il ruolo dell’Europa?
«Situazioni tragiche portano uomini forti, uomini forti creano tempi facili, tempi facili creano uomini deboli, uomini deboli portano problemi drammatici, come quelli che viviamo. In tutti questi anni la politica si è sottomessa alla finanza. Si pensi a un’immagine: quando alla BCE c’è stato il passaggio di consegne da Draghi a Lagarde, in platea c’erano tutti i capi di Stato e di governo. In un’altra epoca sarebbe stato impensabile che Adenauer o De Gasperi applaudissero i banchieri. E, tra l’altro, oggi abbiamo una classe politica che formula soluzioni ma non risponde alle domande reali. Einstein diceva: “Non affidare la soluzione dei problemi a coloro che li hanno causati”. Ogni riferimento è puramente casuale».