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La passione italoeuropea per le crisi, il disinteresse per le opportunità
Di Daniele Capezzone
No, lungi da questa piccola rubrica l’intenzione di invitare alla superficialità o alla sottovalutazione dei problemi che abbiamo davanti. Al contrario.
E tuttavia non si può non vedere come – quasi feticisticamente – i media e la politica europei, e di riflesso i nostri, siano attratti dalle crisi. Non dalla possibilità di risolverle e superarle, o di convertirle in occasioni di rilancio. Per quello, non c’è né la forza né la mentalità.
No: tutta l’attenzione, con diverse gradazioni funeree, è sulla crisi in sé, sull’agonia o sulla cura che non funziona, sul corpo sfibrato che non risponde. È questa la narrazione applicata alle crisi industriali, alla chiusura delle fabbriche, a una crescita stentata, a un welfare costoso e collassante usato per praticare una sorta di respirazione artificiale a oltranza.
Ipotesi radicali di distruzione creativa, operazioni-motosega alla Milei non sono nemmeno pensate, o nella migliore delle ipotesi sono viste come qualcosa di esotico e dunque inconcepibile a queste latitudini. Siamo dentro una specie di RSA mentale e culturale, di residenza dove si attende il peggio e si cerca di ammortizzare un declino inevitabile.
Allo stesso modo, follemente, nemmeno ci si interroga sul fatto che le “cure” adottate finora siano state inefficaci: le si dà per scontate e immodificabili, a partire dal green deal, dalla mistica applicata alle transizioni, con relativi piani pubblici superstatali destinati a durare per sei-sette anni, a bruciare risorse ingentissime, e ovviamente a non produrre nulla.
È la tirannia dello status quo: ma può condurre al rigor mortis prima di quanto gli infermieri pensino.