Politica
UE, Gianni Pittella: «Questione russa, Europa divisa da interessi diversi»
Di Marco Cossu
Quest’anno si celebra il trentesimo anniversario del Trattato di Maastricht. Ufficialmente denominato Trattato sull’Unione europea e sottoscritto da 12 paesi, pose le basi per la realizzazione dell’Unione così come la conosciamo. A trent’anni di distanza la UE ha centrato numerosi obiettivi che si era prefissata, ma non sempre è riuscita ad essere all’altezza delle aspettative dei cittadini, soprattutto nei periodi in cui era atteso un suo ruolo risolutivo capace di superare il burocratismo di cui è sempre stata accusata. La crisi pandemica ha offerto a Bruxelles una nuova occasione per riallacciare il rapporto con i cittadini, mostrare il suo volto umano e incidere in modo chiaro sui temi hard dell’agenda politica. Abbiamo incontrato il senatore democratico e sindaco di Lauria Gianni Pittella, già vicepresidente del Parlamento europeo e Presidente del Gruppo dei Socialisti e Democratici per fare un punto sulle sfide attuali e future. Tra tante quello di ridurre la distanza tra il centro del potere e la periferia.
Sono passati trent’anni dalla firma del Trattato di Maastricht, molti obiettivi fissati in quegli anni sono stati raggiunti. Alcune aspettative però non sono state totalmente soddisfatte. Cosa manca ancora all’Europa per essere davvero Unione?
«Il Trattato di Maastricht ha sancito un passaggio fondamentale per l’integrazione europea, con la creazione della moneta unica e di un sistema di coordinamento delle politiche economiche degli stati membri. Come ha dimostrato la grande crisi finanziaria, soprattutto negli anni dal 2010 al 2012, all’Europa ancora manca una politica di bilancio comune, che consenta di usare strumenti di politica di bilancio, accanto alla politica monetaria della BCE, per uscire presto dalle crisi. La Ue non può essere solo l’Unione della moneta e delle banche , occorre una curvatura politica e una capacità piena di tutelare i beni pubblici europei».
L’UE dà una percezione di stanchezza e sembra non avere più voglia di immaginare il futuro. Servirebbe uno sforzo creativo?
«A parte alcune contraddizioni e alcuni stop and go questo non è assolutamente vero. Con la pandemia da COVID-19, l’Europa si è dotata ad esempio dello strumento del Next Generation EU che se reso permanente potrebbe costituire il punto di partenza per la creazione della capacità di bilancio di cui avremmo bisogno. Ma pensiamo anche alla crescente convinzione che serva rafforzare la propria unità nell’affrontare le sfide strategiche comuni, oppure i cambiamenti climatici. O alla Conferenza sul futuro dell’Europa, in cui parlamentari, associazioni e cittadini si stanno confrontando per capire come migliorare le istituzioni e le politiche europee. L’Europa guarda al 2050, spesso siamo noi italiani che poniamo limiti alla nostra immaginazione di futuro».
Questo potrebbe coinvolgere la revisione dei trattati?
«La Conferenza sul futuro dell’Europa potrebbe dare origine a una riforma dei trattati e sarebbe certamente un passaggio benvenuto se contribuirà a rafforzare il carattere democratico dell’Unione, ma non perdiamo di vista quanto possiamo fare anche senza modificare i trattati. Ad esempio una riforma del patto di stabilità».
Anche il concetto di cooperazione rafforzata (basta un gruppo di 8 Stati per andare avanti su un tema senza gli altri) è in discussione. Va ammodernare? Come?
«Il rischio che storicamente si è visto è quello della cosiddetta Europa à la carte, che significa Europa al menù, dove ciascuno stato sceglie, come al ristorante, cosa prendere e cosa no. Il modello da seguire è quello dell’integrazione a due velocità: se non tutti i paesi hanno una visione comune su come l’Europa dovrebbe essere, lasciamo la possibilità a un nucleo di paesi di avvicinarsi al modello di un’Europa federale e agli altri di tenere i vantaggi dell’appartenenza all’Europa senza condividere questo progetto ambizioso».
Nonostante le tensioni tra Russia e Ucraina si ripercuotano sugli interessi europei – energetico, economico, sicurezza – l’Unione non sembra essere capace di parlare ad una sola voce in termini di politica estera. Un “occasione” sprecata?
«In questo caso purtroppo non esistono interessi europei comuni. La questione russa ci colpisce soprattutto sul versante energetico. È chiaro che la Francia, che è indipendente dal punto di vista energetico perché produce energia per circa il 70% del suo fabbisogno con il nucleare, ha interessi diversi dalla Germania, che dipende fortemente dal gas russo. Sfortunatamente, la situazione italiana è più simile a quella tedesca, come abbiamo visto con l’immenso aumento delle bollette. Occorre quindi lavorare fin da subito per garantire l’indipendenza energetica, e nel frattempo diversificare le fonti di importazione di gas».
Il suo pensiero su esercito europeo. Buona o cattiva idea? Se buona qual è la strada per realizzarla?
«Sicuramente una buona idea, ma come tutto l’importante sono i dettagli. Avere sistemi di armamento comuni ci consentirebbe di risparmiare tantissimo denaro pubblico, come studi autorevoli indicano da tantissimi anni. Bisogna proseguire con le ottime iniziative realizzate dall’Agenzia europea per la difesa e dall’OCCAR, e lavorare a stretto contatto con la NATO, che rappresenta un’istituzione imprescindibile per la sicurezza dei paesi europei».
Dalla crisi del debito sovrano del 2011 la percezione nei confronti dell’Unione Europea è cambiata. Da quella data viene associata sempre più all’idea di un’entità burocratica. Da quella data sono attraversate molte difficoltà: terrorismo, crisi dei migranti e da ultimo la pandemia. La UE ha certamente svolto un suo ruolo ma non sempre è stata percepita come risolutiva dai cittadini. È un problema di comunicazione o di distanza?
«Come dicevo prima, secondo me i cittadini si sono accorti della vicinanza dell’Europa molto di più nella pandemia che durante la crisi finanziaria. La comunicazione inefficace e la distanza si possono colmare se le istituzioni evolveranno verso un modello più partecipato e democratico. Davide Sassoli ci stava lavorando con innegabili successi».
Con Next Generation EU, la UE ha un’occasione per riallacciare i rapporti con i cittadini e con i territori. Il Pnrr consentirebbe di portare l’Europa nei territori, nei comuni, cuore pulsante del nostro Paese. Si avvicinerà ai cittadini?
«Secondo me solo in parte, non dimentichiamoci che i fondi del PNRR arriveranno ai territori per tramite dei ministeri, soprattutto il Ministero dell’economia e delle finanze, delle regioni e dei comuni. Però con questo grande sforzo di progettazione, sicuramente i cittadini diventeranno più avvezzi al gergo europeo. Dobbiamo fare in modo che questa nuova sensibilità alla progettazione non vada perduta quando il PNRR sarà esaurito, e applicarla anche ai fondi strutturali, che l’Italia ha sprecato vergognosamente negli ultimi decenni».
Un’occasione anche per il Sud. Il Sud sarà capace di coglierla?
«Molto dipenderà dall’intraprendenza e dalle competenze pratiche del personale degli enti locali, soprattutto degli europrogettisti. Ma anche dalla presenza di imprese e soggetti che abbiano le capacità di partecipare ai bandi. Se intorno alle istituzioni c’è un deserto, si possono avere i funzionari migliori, ma non si potrà costruire nulla di buono. Per questo spero che il PNRR possa rappresentare una grande occasione di crescita civica e istituzionale per la nostra società, soprattutto per sud e aree interne, cui il PNRR è principalmente rivolto».
In una recente intervista il Presidente dell’Anci Antonio Decaro ha parlato delle difficoltà dei comuni nel rispettare tempi e procedure per la realizzazione dei progetti. C’è bisogno di una semplificazione. Quali tipi di azioni bisognerebbe mettere in campo?
«Decaro ha perfettamente ragione, ci sono problemi che rendono difficilissimo per i Comuni candidarsi e accedere al PNRR. Le faccio un esempio: un Comune medio piccolo ha un organico limitato che già fa fronte con difficoltà all’ordinario… come fa a preparare gli studi di fattibilità previsti dai bandi del PNRR? Deve affidare un incarico all’esterno? Ma in questo caso deve anticipare i fondi per la progettazione che potrà recuperare solo se il progetto andrà a buon fine… ma i bilanci dei Comuni non danno che minimi margini di operatività. Ecco che sarebbe necessario o mettere a disposizione professionisti utili allo scopo gratuitamente o coprire le spese di progettazione esterna. E inoltre spingere a realizzare Unioni di comuni che possano mettere insieme le forze e cimentarsi in questa grande opportunità».
Lei è sindaco di Lauria, comune unico come tutti i comuni italiani ma con problemi simili a tante altre comunità italiane: rischio spopolamento, mancanza di opportunità lavorative, difficoltà di accesso ai servizi. Cosa possono fare le nostre comunità locali per scivolare nella sindrome dell’abbandono?
«Uscire dalla presunzione della autosufficienza, mettersi insieme, dar vita a città territorio con cui realizzare servizi in comune e programmi in comune. Lavorare sulle tre grandi sfide del presente: la transizione ecologica, quella digitale e la coesione e inclusione sociale. Ricostruire memoria storica, rafforzare l’attrazione turistico culturale, spingere a nuovi insediamenti industriali con le Zes, promuovere l’accoglienza di immigrati e il rientro degli emigrati e ripopolare i nostri borghi. Noi di Lauria abbiamo un attrattore naturale che è il Sirino, una montagna bellissima dove cade una neve splendida per sciare e dove in estate si possono realizzare passeggiate meravigliose ad alta quota ed altri sport. Su questo tutto ciò che investirà il Governo Nazionale sarà ben speso».
Ultima domanda sull’Euro. A che punto la moneta unica è del suo cammino? Tra 10 anni quanti Stati lo avranno adottato?
«Difficile da prevedere, sarò molto più felice se tra dieci anni avremo, piuttosto che 27 paesi con la moneta unica, gli attuali 19 con una politica di bilancio comune, come ho auspicato all’inizio della nostra conversazione».