“Nas ne dogonyat”, più di un tormentone. La canzone delle t.A.T.u. venne destinata all’apertura delle Olimpiadi invernali di Sochi del 2014. “Non ci raggiungeranno”, non solo un simpatico motivetto da poter scandire con repentini scatti del capo ma una scelta evocativa che ad un occhio superficiale riporta semplicemente ai risultati conseguiti dagli atleti russi durante la competizione. In realtà si tratta della stessa scelta che ha spinto Putin a investire più di 50 miliardi di dollari per mettere in piedi un’Olimpiade da record e che trasforma i Giochi in un evento apparentemente neutrale.
Infatti non a caso, in tempi “non sospetti”, Stalin fece debuttare l’Urss ai Giochi di Helsinki del 1952 sulla falsa riga del seguente ragionamento: «Gareggiamo e non senza successo con le nazioni borghesi sul piano economico e politico. Perché non farlo nello sport?». Per questo le Olimpiadi nel Caucaso hanno dimostrato quanto lo sport sia un vettore di potenza.
Il fattore geografico
Ma nel caso specifico lo è molto di più la posizione geografica che venne scelta. La regione caucasica è storicamente contesa oltre che continuamente presa di mira dalle insurrezioni nazional-islamiste. La città di Sochi si trova ad un colpo di mortaio dall’Abkhazia, una delle repubbliche separatiste georgiane filorusse (insieme all’Ossezia del Sud). Inoltre le Olimpiadi invernali di Sochi vennero assegnate nel lontano 2007, quando gli Stati Uniti guardavano con speranza l’espansione della Nato. Un sogno trainato dal desiderio di adesione da parte della Georgia guidata dal Presidente Mikheil Saakashvili (in carica dal 2004 al 2013).
Non fu un caso, quindi, che le mire di Putin volessero convergere nello sventolare il vessillo del Cremlino insieme alla torcia olimpica. “Stendardi” puntando a tre traguardi che andavano oltre ai meriti sportivi: il miglioramento dell’immagine internazionale della Russia, la distribuzione di risorse tra gli amici oligarchi, il rafforzamento del consenso interno al Paese.
Cosa è cambiato?
Tutto e niente, o per usare le parole di Putin: “Tutto passa, passerà anche questo”. Peccato che la frase sia stata utilizzata in due circostanze poco felici; in primis al coronavirus e in secundis alle ripercussioni della guerra in Ucraina. Sulla base di questo, a distanza di 10 anni dalla chiusura dei Giochi e superato il secondo anniversario dell’invasione dell’Ucraina, alcuni potrebbero pensare che la guerra alle porte dell’Unione europea o dell’Alleanza Atlantica possa essere vista come una coda lunga della disgregazione dell’Urss. Meccanismo di cui fa parte il Caucaso; prima tessera fondamentale del puzzle e narrazione predominante di Putin poi.
Memore della breve guerra nel 2008 tra Russia e Georgia, ad oggi l’obiettivo del Cremlino rimane quello di evitare che si apra un secondo fronte di conflitto nel Caucaso. Ma nelle migliori delle ipotesi si auspica che proprio la stessa regione possa diventare un modello per l’espansione di altre periferie federate.
Il traguardo più grande, dunque, per Mosca, sarebbe quello di trasformare un possibile tallone d’Achille in centro nevralgico per le direttrici diplomatiche e commerciali. Certamente le problematiche da affrontare spaziano dalle controversie etniche irrisolte alla difficile realtà economica fatta di divario tra centri urbani e rurali e di alta disoccupazione.
Se Putin riuscisse a mettere segno la capacità di sfruttamento del territorio aprirebbe una via d’accesso al mondo orientale e arabo; strada che non metterebbe solo una pezza alla resistenza ucraina, ma renderebbe indigesto il processo di fagocitazione della Russia da parte della Cina.