Salute
Quando una vita può considerarsi tale? Intervista con Filippo Maria Ubaldi
Di Gaia De Scalzi
La sentenza della Corte Suprema dell’Alabama che, citando la Bibbia, ha stabilito che gli embrioni formati attraverso la fecondazione in vitro sono esseri umani (e che la loro distruzione potrebbe essere considerata al pari di un omicidio) è notizia oramai vecchia. Eppure lo sgomento suscitato da questa decisione resta ancora freschissimo. Se anche tra i più ferventi cattolici, come gli ultraconservatori, questa tesi non convince (tanto da aver costretto Trump a prenderne le distanze), la domanda sorge spontanea: quando una vita può considerarsi tale? Lo abbiamo chiesto alla scienza riproduttiva o meglio a uno dei massimi esperti di questa branca: Filippo Maria Ubaldi, ginecologo, Past President della Società Italiana di Fertilità e Sterilità (SIFES) e membro del tavolo tecnico sulle tematiche relative alla Procreazione Medicalmente Assistita, istituito dal Ministero della Salute. «Secondo la definizione scientifica, l’inizio di una vita si ha quando compare il sistema nervoso, ossia intorno alla dodicesima settimana di gestazione».
Quindi tutto quello che vi è prima non può essere considerato essere umano?
«Nei concepimenti spontanei, la maggior parte degli embrioni che si formano hanno delle alterazioni cromosomiche e quando ciò si verifica la natura li elimina, interrompe cioè gli errori del concepimento o non facendo impiantare l’embrione non corretto o interrompendo la gravidanza nel primo trimestre. Errori cromosomici che aumentano in maniera proporzionale all’avanzare dell’età anagrafica della donna. Recentemente abbiamo pubblicato sulla rivista Science la percentuale di alterazioni cromosomiche negli ovociti in relazione all’età».
E cosa ne è emerso?
«Grazie a circa 15 anni di diagnosi genetica preimpianto sapevamo che negli embrioni, cioè il prodotto del concepimento generato dalla fusione fra un ovocita e uno spermatozoo, lo stato cromosomico era funzione dell’età della donna. Quello che abbiamo scoperto è che anche negli ovociti la struttura cromosomica è esattamente corrispondente all’età di quest’ultima. Per cui a 25 anni 8 uova su 10 sono sane, a 30 anni ne sono sane 6 su 10, a 35 solo 4 su 10 e a 43 solo un uovo su 10. Pertanto non possiamo considerare la distruzione di un embrione alla stregua di un omicidio di un essere umano, sia perché non sappiamo se l’impianto proseguirà nel tempo, sia perché potrebbe essere alterato geneticamente ed essere espulso naturalmente».
Abbiamo capito che l’età della donna è un fattore dirimente quando si cerca una gravidanza. Eppure sempre più donne pensano alla maternità superati i 32 anni, per non dire 37. L’ultimo rapporto Eurostat parla di “Europa senza figli”, perché ci troviamo di fronte a un inesorabile crollo demografico. In questo contesto quante sono le coppie che in Italia fanno ricorso alla procreazione medicalmente assistita (PMA)?
«Stando al registro nazionale di PMA, che contempla sia i dati dei centri privati sia di quelli pubblici, nel 2021 nel nostro Paese sono stati effettuati 108 mila trattamenti di PMA in circa 80 mila coppie; registrando un incremento del 30-40% rispetto all’anno precedente, quello della pandemia. Nel 2022 le coppie che si sono sottoposte a trattamenti di PMA sono aumentate di un ulteriore 5-10%. Ma, al di là delle ragioni socio economiche per le quali si rinvia una gestazione, io noto ancora una grande disinformazione. Visito quotidianamente donne che a 40 anni non sanno che restare incinta a quella età è complicatissimo. Queste cose andrebbero spiegate al liceo o all’università».
Una soluzione potrebbe essere il congelamento degli ovociti per preservare la propria fertilità ma ha un costo abbastanza elevato. Ammesso e non concesso che ci pensino, quante ragazze potrebbero permetterselo a 25-30 anni?
«Nelle ultime linee guida ministeriali abbiamo fatto inserire la preservazione della fertilità per motivi oncologici e medici, cosa che fino a ora non c’era. La tendenza è tuttavia quella di provare a fare altrettanto con la preservazione della fertilità per motivi “sociali”».
Parliamo per un secondo del futuro degli embrioni congelati, un tema poco dibattuto. Quando non vengono impiantati che fine fanno?
«L’attuale normativa prevede che questi embrioni vengano conservati nei contenitori di azoto liquido. Restano di fatto in un limbo, anche quelli sui quali è stata fatta la diagnosi preimpianto e che sono stati giudicati aneuploidi (alterati cromosomicamente ndr), quindi non abili al trasferimento. Anche in questo caso non possono essere distrutti o donati alla ricerca, sebbene a chiedercelo sia la coppia stessa».
E quanti embrioni testati e abili al trasferimento vengono, per così dire, abbandonati nel limbo?
«Pochi, molto pochi. Nelle donne sopra i 35 anni – che rappresentano 85% delle pazienti che si sottopongono a tecniche di PMA – il numero medio di embrioni sani è uno, che si riduce a 0,5 tra i 40 e i 43 anni. I conti sono presto fatti: una coppia su due dopo i 40 anni ha un solo embrione a disposizione. Discorso differente per gli embrioni non cromosomicamente sani e quelli non testati geneticamente, questi ultimi “potenzialmente vitali”. Lì il numero sale di parecchio ma, come le dicevo, non possiamo né donarli, né distruggerli, né destinarli alla ricerca».
Siamo di fronte a un caso “tutto italiano”?
«Diciamo che in moltissimi paesi vi sono disposizioni di legge che regolamentano il futuro di questi embrioni e che prevedono i tre scenari accennati poc’anzi. Posso però anticiparle che nel tavolo tecnico istituito presso il Ministero della Salute, dove siedo da qualche anno, il destino degli embrioni aneuploidi sarà uno dei prossimi punti di discussione».
Mentre per gli embrioni sani o non ancora testati quale futuro?
«Un passo alla volta. Un’idea potrebbe essere quella della donazione, sempre che la coppia che dichiara l’abbandono sia d’accordo. In ogni caso sarà sempre la coppia a decidere, siano essi embrioni cromosomicamente fallaci, giudicati sani o non testati».
E nel frattempo?
«I pazienti pagano per il mantenimento degli embrioni congelati dal secondo anno di stoccaggio, secondo le nuove linee guida».
Come si dice in questi casi: “Stay tuned”!