Salute

Sanità, liste d’attesa: i problemi e la necessaria sinergia pubblico-privato

13
Marzo 2024
Di Giampiero Cinelli

La sanità pubblica italiana resta a giudizio unanime un fiore all’occhiello, pur mostrando criticità che vanno avanti da tempo. Sulle prestazioni emergenziali l’efficienza, e soprattutto la gratuità, è evidente la virtù, mentre difficoltà organizzative caratterizzano le prestazioni ambulatoriali, collegate alle liste d’attesa. Liste e tempi d’attesa troppo lunghi, spesso anche per malattie importanti, che spingono troppi cittadini a rinunciare alle cure.

I numeri allarmanti
Come ha evidenziato Sabrina Nardi, Consigliere dell’Associazione Salutequità a Largo Chigi, il format di The Watcher Post, gli ultimi dati disponibili del 2022 dicono che rinunciano alle cure il 7% della popolazione, uno su due per problemi di liste d’attesa. Prima della pandemia il tasso di rinuncia era più basso e non in primis per via delle liste. Addirittura il gradiente nord-sud si è ridotto, quindi anche nel settentrione si tende a rinunciare di più, ora impattando inoltre sulle classi più abbienti. Il problema colpisce particolarmente gli anziani, una platea di 3 milioni in cui uno su due smette di curarsi. Il 33% di questi ha una o più patologie croniche.

La situazione post pandemica ha nettamente peggiorato il quadro, con 3.800 milioni di ricoveri in meno nel 2020-22 rispetto al 2019. Con gli interventi che vanno garantiti a trenta giorni per patologie molto rischiose, le cui tempistiche sono rispettate nel 73% dei casi. Nel 2022 è saltata una prestazione ambulatoriale specialistica su dieci rispetto al 2019.

Sotto i livelli pre-Covid
Sono appunto, secondo Nardi, gli strascichi di una dinamica creatasi durante il Covid, quando si tralasciava quasi tutto per curare il virus: nei primi sei mesi del 2023 il livello delle prestazioni rispetto a quel periodo è ancora col segno meno e solo l’attività di laboratorio ha ripreso a pieno regime. La Calabria, la Val D’Aosta, la Basilicata, Sardegna eseguono in meno una visita su tre rispetto al 2019. Bolzano il 40% in meno. Il governo nelle ultime leggi di bilancio ha messo risorse per snellire le liste, ma solo il 69% dei fondi sono stati spesi e il sud ne ha spesi solo il 41%. Dei ricoveri è stato recuperato solo il 66% al nord e al sud il 40%, mentre nelle prestazioni ambulatoriali il recupero è fermo al 57% di quanto era stato programmato dalle regioni. Dunque non è solo un problema di risorse ma di funzionalità generale.

Pubblico-privato la soluzione?
L’infettivologo del San Martino di Genova e professore ordinario di malattie infettive Matteo Bassetti, intervenuto a Largo Chigi, ha osservato che uno degli elementi che ingolfano le liste d’attesa sono anche gli esami non necessari: «In Italia vediamo spesso una “medicina difensiva”, in cui per far fronte alle mancanze si chiede al paziente di venire già con una Tac o una risonanza magnetica anche quando potrebbe non servire, rimandando poi a ulteriori visite specialistiche. Non voglio dire che non sia mai giusto approfondire, anzi, ma se cerchiamo di filtrare le prestazioni da evitare concentrandosi sulle indispensabili il tempo si accorcia. Questo atteggiamento è dovuto comunque anche al timore del medico di incorrere in denunce, per questo sostengo che l’operato del medico in Italia vada depenalizzato. Il che non significa affatto agire irresponsabilmente e non essere perseguiti nelle giuste sedi, ma non essere accusati di omicidio».

Le convezioni
Bassetti, nel parlare del problema delle liste d’attesa, ha poi sostenuto la necessaria collaborazione tra pubblico e privato convenzionato, possibilmente offrendo gratuitamente le cure in strutture private, come avviene in gran parte dei principali Paesi europei. «Lavoro da 25 anni in un ospedale pubblico e in un’università pubblica quindi non ho interesse nel dire certe cose, ma ritengo che alcune cose debba continuare a farle il pubblico mentre altre può farle il privato. Ad esempio una Tac».

La medicina integrativa
Il secondo tracciato per risollevare la macchina sanitaria, per Bassetti la sanità integrativa. Ovviamente non adatta a tutti ma molto utile per l’erogazione di cure più ordinarie. Il medico ha fatto l’esempio di Germania e Francia, in cui si fa largo uso di polizze assicurative su cure odontoiatriche; il professore ha specificato che per implementare un modello fatto in primis da sanità pubblica e convenzionata, poi da quella integrativa, quest’ultima va resa più conveniente attraverso interventi fiscali. Fermo restando, a detta sua, che sia necessaria questa strada, siccome le assicurazioni possono coprire 13-14 milioni di persone e ai 130 miliardi circa che mette lo Stato ogni anno, con l’auspicio che l’impegno aumenti, ci vorrebbero però altri 50-60 miliardi che possono essere spesi attraverso medicina integrativa, considerando, ha affermato Bassetti, che più gente si assicura più il premio, cioè il costo per il cittadino, scende.

La critica all’Intramoenia
In tal modo si potrebbe rimediare alle storture della riforma Bindi del 1999, che a Matteo Bassetti non piace proprio, soprattutto per quanto riguarda l’Intramoenia (cioè prestazioni erogate nel pubblico ma pagate come se fossero private), siccome riduce la disponibilità di medici. Poi in generale, si è toccato il tema della capacità di gestione, riflettendo sul fatto che non sempre un Direttore Generale viene rimosso anche se chiude il bilancio in negativo, nonostante la riforma volesse ispirare i principi di una gestione responsabile.

La politica sta studiando un modello dicotomico
Su una linea analoga Ylenja Lucaselli, capogruppo di Fratelli D’Italia in Commissione Bilancio, la quale ha detto a Largo Chigi che la questione della medicina integrativa è in fase di studio nelle sedi istituzionali e certamente può essere implementata e correttamente incentivata dalle defiscalizzazioni. Un po’ sorprende, ma in parte si potrebbe imitare il vecchio sistema della cassa mutua, ha spiegato la deputata a Largo Chigi. Per Lucaselli sarà inoltre doveroso chiedere una buona programmazione, razionalizzando le spese, rendicontando quando non viene fatto e gestendo meglio le tempistiche. «La sanità privata convenzionata non è un male assoluto. Considerando anche che noi dobbiamo fare i conti con l’autonomia regionale sulla materia. E i territori molte volte non utilizzano i fondi in modo cristallino, si pensi a quando quei soldi vanno a finire in altre altre voci di bilancio», ha rimarcato l’onorevole.

La ricetta di Nardi
Dunque Sabrina Nardi ha indicato il percorso elaborato da Salutequità: «Non servono nuove leggi ma innovazione. Si dice dei fondi stanziati non spesi. Questi fondi vanno vincolati a chiari obiettivi da raggiungere altrimenti finiscono nel fondo indistinto, permettendo comunque di sbloccare risorse man mano che gli obiettivi si raggiungono. Ci vuole un nuovo piano per le liste d’attesa e tempi d’attesa con l’aggiornamento del piano 2021, integrandolo a un piano sanitario nazionale con risorse vincolate per regione. Insieme ci vuole un’azione di monitoraggio basato su un sistema di garanzia dei Lea (Livelli essenziali di assistenza). Sbagliato infatti – ha sottolineato Nardi – che sulla valutazione delle liste d’attesa non ci sia un “Indicatore Core”, cioè un indice che sblocchi risorse premiali per le regioni efficienti. E infine è giusto eliminare esami inutili, assicurando quelle per i malati cronici. Siccome emerge che ad esempio la visita alla vista per i diabetici è assicurata solo da cinque regioni, è un diabetico su cinque ad averla, ma se poi si arriva alla cecità è peggio, anche da un punto di vista economico per la sanità».

Ricentralizzare la sanità
Davide Faraone, capogruppo Italia Viva in Commissione Affari Sociali della Camera ha rimarcato che In un sistema che funziona non dovrebbe esserci distinzione tra pubblico e privato. L’idea è che il privato accreditato svolga funzioni del pubblico non a caro prezzo. Ma mancano risorse, «Quando abbiamo posto questione del Mes non era per ideologia. I soldi sono pochi e ora i miliardi sono bruciati dall’inflazione. Liste d’attesa lunghe si generano anche perché i medici devono andare a fare sostituzione in pronto soccorso e altrove, vista la carenza di personale. Ecco perché la soluzione delle Case di Cura, però anche quelle vanno riempite dai dottori. La sanità quindi a mio avviso deve essere sotto l’unica competenza statale, insomma il sistema va centralizzato. Nel frattempo vogliamo continuare a porre l’opzione del Mes», ha dichiarato il deputato a Largo Chigi.