Il nuovo intervento di Mario Draghi, questa volta da Washington, è un’analisi lucidissima sulla globalizzazione, sulle grandi promesse tradite del mondo post 89, su ciò che dovrebbe esser fatto oggi da leader politici lungimiranti e coraggiosi.
Draghi non usa mezzi termini, parla di mondo confuso dove nessuno ha la forza e la capacita di costruire soluzioni alle sfide aperte, dalla invasione della Ucraina, alla destabilizzazione del Medio Oriente, alle conseguenze nefaste della vicenda del Mar Rosso.
In questo mondo che non è quello che ci saremmo aspettati dopo l’89, nessuno può fare da solo e le nuove sfide – su clima, disparità di reddito, ineguaglianze – richiedono, è la ricetta di Draghi, «una politica fiscale chiamata a incrementare gli investimenti pubblici per soddisfare la gamma di nuove esigenze di investimento”.
E così anche su sicurezza e difesa. Ed io aggiungo su immigrazione e intelligenza artificiale.
Questa sorta di manifesto politico è un richiamo senza appello all’Europa. E il rischio che Trump sia di nuovo il Presidente degli Stati Uniti d’America, con il suo dichiarato isolazionismo, rende questo richiamo un imperativo categorico.
Rimarrà una voce che grida nel deserto o ci saranno interlocutori capaci di cogliere e rilanciare queste sfide?
L’arena elettorale europea sarebbe il luogo giusto per scontrarsi ed incontrarsi con autentica passione su questi temi.
Ciò che il discorso di Draghi evoca è il senso della ineluttabilità di queste scelte, pena un declino storico del progetto europeo.
Dovrebbe esser chiaro che non è più il tempo di mediazioni e compromessi al ribasso se l’Europa non intende essere travolta da una globalizzazione impazzita, senza testa, e senza governo.