Le elezioni europee costituiscono uno dei maggiori esercizi di democrazia nel pianeta: soltanto le elezioni indiane mobilitano un più alto numero di persone. Dal 23 al 26 maggio oltre 400 milioni di cittadini Ue potranno recarsi alle urne per eleggere i 751 nuovi membri del Parlamento europeo. Sarebbero dovuti essere 705, ma il rinvio del Brexit ha per il momento congelato ogni modifica numerica nella composizione dell’emiciclo di Strasburgo. I primi a votare saranno olandesi e britannici (giovedì 23), seguiti da irlandesi e cechi (venerdì 24) e quindi maltesi, lettoni, slovacchi e ancora cechi (sabato 25), dopodiché toccherà a tutti gli altri (domenica 26). Il voto è obbligatorio in Belgio, Bulgaria, Cipro, Grecia e Lussemburgo. Nel corso dei decenni la partecipazione a queste storiche consultazioni continentali è diminuita di circa venti punti percentuali, muovendosi in maniera inversamente proporzionale al processo di allargamento dell’Ue. L’apice risale al 1979, anno d’esordio delle Europee, quando votò il 62% degli aventi diritto nei nove Stati membri. Da allora è sempre calata: 58,4% nel 1989 (12 Stati membri), 49,5% nel 1999 (15 Stati membri), 43% nel 2009 (27 Stati membri). La disomogeneità interna dello spazio-Ue, inoltre, ha delle conseguenze rilevanti sul normale svolgimento delle consultazioni. In Italia, ad esempio, il numero medio dei voti necessari a eleggere un saggio a Strasburgo è dieci volte superiore a quello del Lussemburgo, mentre la ripartizione dei seggi stessi può variare da Paese a Paese in ragione della loro diversa demografia nazionale: se la popolosa Germania (82 milioni di abitanti) ha diritto a ben 96 europarlamentari, gli ultimi della classe (Malta, Cipro, Estonia e appunto Lussemburgo) si fermano ad appena sei seggi ciascuno.
Anche la cacofonia linguistica è formidabile, con il Parlamento costretto suo malgrado nel ruolo di Babele del XXI secolo stanti le sue 24 lingue ufficiali dominate dall’inglese dei Brexiteer. Negli anni sono cambiati i temi in cima alle preoccupazioni dall’elettorato, riflettendo i forti mutamenti socioeconomici vissuti dalla nostra epoca. Secondo un sondaggio di Eurobarometro condotto ad aprile 2019, ad esempio, dieci anni fa e in piena crisi dei debiti sovrani l’economia dominava la scena (90%), seguita a distanze siderali da immigrazione, cambiamenti climatici e criminalità. Oggi svetta invece proprio l’emergenza migratoria (40%), cresciuta sensibilmente soprattutto dopo la crisi vissuta nel biennio 2015-6 e tale da spiegare parte degli importanti guadagni consensuali registrati negli ultimi tempi dai partiti c.d. euroscettici e populisti. Il tema del loro possibile exploit sta dominando la campagna delle Europee. Anche se non conquisteranno la maggioranza del nuovo Parlamento, le elezioni inaugureranno una fase di loro massima influenza politica nelle istituzioni di Strasburgo e Bruxelles. I riflettori sono tutti su Italia e Francia, ove operano i due principali partiti euroscettici del continente: la Lega di Matteo Salvini e il Rassemblement national di Marine Le Pen. Se il primo è in corsa per raddoppiare i voti delle politiche 2018 e insidiare il primato europeo della CDU/CSU di Merkel, il secondo ha la possibilità di battere il partito esordiente del presidente Macron.
Alberto De Sanctis