Politica

Venti di guerra (politica) sul governo Draghi

05
Maggio 2022
Di Ettore Maria Colombo

Il governo Draghi e la sua tenuta in Parlamento scricchiola. Non ci si crede, a pensare agli scenari di guerra che continuano ad addensarsi nell’Est dell’Europa, in Ucraina e alla frontiera con i Paesi Nato, ma anche rispetto a una Unione europea dilaniata dalle polemiche sulla sua compattezza, messa in discussione proprio dai Paesi dell’Est, a tal punto che lo stesso Draghi, nel suo discorso all’Europarlamento di Strasburgo (“Serve più federalismo. I trattati vanno rivisti”) ha messo nel mirino, come ha fatto anche il segretario del Pd, Enrico Letta, la regola-cappio dell’unanimità e del diritto di veto, proponendo una riforma del voto, in seno al Consiglio Ue, a maggioranza. Eppure, i segnali che arrivano dai palazzi della Politica sono molteplici e tutti poco piacevoli, per la permanenza proprio di Draghi a palazzo Chigi.

Pur consapevoli che, in questo modo, andrebbero incontro a un suicidio di massa – dalla prossima legislatura scatta il taglio dei parlamentari (-345, e non sono affatto pochi) e, stante l’impossibilità di modificare in pochi mesi la legge elettorale, l’attuale Rosatellum, i collegi uninominali, che sono quota parte fino al 36% del totale dei collegi – nei Palazzi la ‘tentazione’ del voto anticipato inizia a serpeggiare. Più forte, paradossalmente, tra i peones che tra i big. In due partiti, soprattutto, Lega e M5s, la tentazione cresce. Le ultime scosse sono arrivate dal Movimento 5 Stelle, un partito con cui Draghi non è mai riuscito a instaurare un dialogo sereno e proficuo. Prima lo ‘schiaffo’ della norma sul nuovo inceneritore a Roma (fortemente voluto dal sindaco, l’ex ministro all’Economia, Gualtieri, cui vengono affidati poteri speciali per affrontare l’emergenza rifiuti) che ha provocato l’astensione, in consiglio dei ministri, di tutti i rappresentanti del Movimento, che non hanno votato l’ultimo, importante, decreto aiuto a famiglie e imprese.

Si sa che i Cinque stelle, e il loro elettorato di riferimento, sono da sempre contrari agli inceneritori, sostenendo che si possa evitarne la costruzione grazie a un ciclo di rifiuti diverso e una raccolta differenziata più spinta. Il problema è che, specie nella capitale, i volumi di immondizia prodotti sono enormi e trasportarla nelle discariche con migliaia di tir non ha fatto altro che aumentare l’inquinamento. Così, dopo le pressanti richieste di Gualtieri (e del Pd), Draghi ha dato il via libera alla norma che ha dato via libera all’inceneritore.

Poi, però, sono arrivate le critiche lanciate, a freddo, da Draghi contro il superbonus, con l’annuncio di uno stop radicale, o quantomeno di un forte ridimensionamento al Superbonus 110%.

Nel giro di 48 ore, il governo (nel primo caso) e il premier in prima persona (nel secondo) hanno messo nel mirino i due capisaldi che costituiscono il capitale di consensi del Movimento.E così, vistosi attaccato nel suo «tesoretto», con la prospettiva delle elezioni a breve (ma qui si parla di quelle amministrative) il leader dei Cinque stelle ha reagito duramente, arrivando a minacciare una vera e propria crisi di governo, buttando, però, ovviamente, l’onere della prova di volerla, la crisi, tutta sulle spalle dell’avversario. «Dicono che vogliamo uscire dal governo – dice un Giuseppe Conte furibondo – ma inizio a pensare che c’è qualcuno che voglia spingere il M5s fuori dall’esecutivo». Draghi, è il sottinteso. E giusto per essere espliciti, il leader pentastellato intigna ed esplicita: «Io non so di quali Draghi parlare, se del Draghi che in cdm approva la norma che proroga il superbonus o se del Draghi che va al Parlamento europeo a parlare male di una misura che ha consentito, a lui, di andare in giro per l’Europa a fregiarsi di un Pil al 6,6%».

Parole dure cui il premier non replica direttamente, altrimenti la crisi di governo si aprirebbe davvero e pure in un minuto, ma dal cui staff trapela tutto lo stupore per i toni esagitati utilizzati dal suo predecessore. Da fonti di governo, dove quei toni vengono giudicati “più da campagna elettorale che da confronto politico”, ci si limita a una puntualizzazione: quando il leader del M5s dice che l’aumento del Pil italiano è dovuto al superbonus dice una cosa imprecisa, dato che il contributo alla crescita dell’intero comparto dell’edilizia pesa solo l’1%.

Certo, il voto in autunno, con una guerra sempre più drammatica in corso e un quadro economico molto preoccupante anche per l’Italia, sembra un’ipotesi piuttosto improbabile, da fantapolitica. Conte, però, forte di essere la prima forza in Parlamento nonostante le decine tra addii ed espulsioni, ha l’esigenza politica arginare il calo di consensi nei sondaggi. Così, con le Politiche 2023 sempre più vicine, il M5s ha aperto in anticipo una lunga campagna elettorale, puntando su un piglio combattivo e critico verso il governo, seguendo lo spirito del Movimento delle origini.

Poi, certo, Conte tira il freno a mano e – a La Stampa – dice che «serve un governo che faccia le cose e non sarebbe il caso che cadesse, anticipando la fine della legislatura». C’è il PNRR da implementare e da completare, il rischio di una recessione alle porte.

Ma il rischio di una crisi politica che si avvia e porta il Paese alle urne in via anticipata resta.

Nel centrodestra – dove temono una riforma del sistema elettorale in senso proporzionale, tema su cui, ormai, nel Pd si spinge in modo forte e unitario – fanno già i calcoli della presunta vittoria: «Se andassimo a votare in autunno vinceremmo, dato che il campo largo di Letta è un disastro. Tra un anno non avremmo certezze». Non che il centrodestra ‘di governo’ non ci metta del suo, nell’intorbidare le acque. Qui la battaglia considerata decisiva è la riforma del catasto, contenuta nella delega fiscale. «Le trattative con il Mef sono su un binario morto» racconta una fonte. Nessuno – si giura – vuole far cadere il governo, ma nessuno – né Lega né FI – vuole cedere su un tema così identitario come la casa e sul principio del ‘no’ a mettere le mani nelle tasche degli italiani. Matteo Salvini sostiene che, sul catasto, “andrò fino in fondo” e, con i suoi, ha sibilato: «Se aumentano le tasse, cade il governo e non vedo l’ora di andare a votare. Avrei la campagna elettorale pronta» ha ripetuto più volte. Una dichiarazione di guerra e il segnale che può succedere di tutto. Anche i ministri più fedeli a Draghi, come il leghista Giorgetti, ammettono che la situazione politica del Paese sarà turbolenta e che, quindi, farsi trovare ‘ancora’ al governo non garantirà alcun vantaggio elettorale, al contrario di quanto accadrà a Fratelli d’Italia, che ora non chiede più le elezioni perché ritiene che la mela cadrà, ormai matura, da sola dall’albero. Per Berlusconi, poi, la casa è un tabù inviolabile, simbolo dei suoi più schiaccianti trionfi elettorali, quindi guai a chi la tocca. Tra gli azzurri, però, convivono diverse anime, quella governista a tutti i costi e quella di chi vede il rapporto con la Lega come strategico. Ed è qui che aumentano i rischi. E se il ministro Roberto Brunetta assicura che «andare alle elezioni anticipate sarebbe una follia» un deputato, a sua volta moderato e liberal, come Alessandro Cattaneo, attacca duro il governo anche sull’ipotesi di cancellare il superbonus e chiede «un chiarimento politico». «La verità – chiosa un dirigente azzurro – è che Draghi è stanco di noi e noi siamo stanchi di lui».

Probabile, in ogni caso, che la riforma del catasto – ritenuta necessaria e urgente da Draghi – si faccia ma l’accordo, per ora, ancora non si trova e, di slittamento in slittamento (il terzo da marzo) dell’approdo della delega fiscale in Aula (che proprio la revisione degli estimi catastali contiene), è chiaro che la nuova data fissata, il ‘ maggio, non sarà rispettata ma di nuovo rinviata, il che vuol dire che difficilmente il provvedimento sarà approvato prima del 30 giugno, termine fissato dal cronoprogramma del PNRR. Una data a cui Draghi teneva moltissimo.

Infine, tornando alle dinamiche parlamentari, nessuno pensa che sia realistico un voto anticipato prima della metà di settembre, quando maturerà il vitalizio per la gran parte dei parlamentari che si trova alla prima legislatura, oltre al fatto, matematico, che almeno 2/3 degli attuali onorevoli non sarà rieletto e che, dunque, cercheranno di allontanare da sé, il più possibile, l’amaro calice della fine della legislatura. Ma se mai una riforma della legge elettorale prenderà piede (Salvini potrebbe essere tentato dal via libera al proporzionale per fermare, con la legge elettorale, la continua ascesa nei sondaggi della Meloni) sarà proprio quello il segno che la legislatura sta per finire. Andare al voto con il Rosatellum e e la riduzione dei parlamentari sarebbe un suicidio per molti, forse per troppi. Ecco perché il sistema proporzionale ha chanches di riuscire a passare, come chiedono Letta e Conte, ma se mai ci sarà una riforma del sistema elettorale – che, in uno o due mesi, si può scrivere e far approvare – sarà quella la campanella di fine legislatura. E lì non ci sarà Draghi che tenga.