Politica
Regionali. Con la scontata vittoria in Friuli il centrodestra può dormire sonni tranquilli.
Di Ettore Maria Colombo
A volerla prendere larga, si potrebbe dire che, come in Finlandia si afferma la destra e, in pratica, la Ue sta diventando un lago, se non sovranista, quanto meno che verrà retto, a partire dalle prossime elezioni europee del 2023, dall’asse PPE-conservatori e che la sinistra (oggi al governo, nei Paesi Ue, solo in due Paesi: Germania e Spagna, ma in Spagna ancora per poco), così si potrebbe dire che la mano ferma con cui il centrodestra governa le regioni italiane sta diventando una presa d’acciaio. Ieri, in Friuli, Fedriga si è riconfermato governatore con livelli di consenso personale altissimo, ma a far di conto se è vero che restano 15 (Fedriga già governava, da cinque, anni, il Friuli-Venezia Giulia) le regioni in mano al centrodestra iniziano a essere tante e, in previsione, possono solo che aumentare mentre quelle in mano al centrosinistra (qui la formula è 4+1, perché la quinta, la Val d’Aosta, ha marcata e spiccata colorazione autonomista) possono solo diminuire. Scendendo nel dettaglio La Lega ha la presidenza di tutte le regioni del Nord (Lombardia, Veneto, Friuli, Trentino), eccetto Piemonte (FI), Liguria (Toti, autonomo ma di centrodestra) ed Emilia Romagna (Pd). Nel dettaglio il centrodestra governa con suoi governatori in Piemonte, Liguria, Lombardia, Trentino Alto-Adige, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Marche (governatore di FdI), Umbria (Lega), Lazio (FdI), Abruzzo (FdI), Molise, Basilicata, Calabria (tutte e tre esponenti di FI), Sicilia (idem) e Sardegna (autonomisti sardi e Lega). Il che vuol dire, tra l’altro, che FI ancora tiene grumi di poteri, voti e consensi (ma solo al Sud che l’azzurro Cirio è in rotta verso FdI…), che la Lega, appunto, governa quasi tutto il Nord e già sogna un (nuovo) assalto all’Emilia rossa e che FdI, in pochi anni, è passata da zero presidenti a tre (Abruzzo, Marche, Lazio), per ora tutti e solo nel centro-Italia, ma punta al bersaglio grosso: Campania e Puglia per annettersi il Sud. Il centrosinistra governa in Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Puglia e, appunto, Valle d’Aosta. Pochine. Senza dire del fatto che, a oggi, solo la Toscana resta un isola ‘rossa’ felice, in Emilia-Romagna si aprirà una partita delicata (Bonaccini non si può più ripresentare, avendo già fatto due mandati, uno dei due ancora in corso) e, dati i pessimi rapporti della neo-segretaria del Pd, Schlein, con i governatori di Campania (De Luca) e Puglia (Emiliano, che però potrebbe volersi candidare in Europa, nel 2024), il centrosinistra – cioè, in buona sostanza, il Pd – potrebbe perdere anche quel poco di potere locale (il potere dei governatori è infinitamente superiore a quello dei sindaci, tranne delle città molto grandi o metropolitane) che ancora detiene.
Il paragone, quello che fa impressione, è che, nel 2018, erano 14 (più la Valle d’Aosta, cioè 15) le regioni che aveva in mano il centrosinistra e, nel 2014 (certo, un secolo fa) erano addirittura 16. Il centrodestra, all’epoca, governava solo il Lombardo-Veneto e, storicamente, la Sicilia. Il cambio di passo arriva nel 2019. Anche se la Lega di Salvini perde la sfida di portare il Paese alle elezioni anticipate, la vittoria di Solinas in Sardegna (autonomisti-Lega) e di Vito Bardi (FI) in Basilicata segna l’inizio di una rimonta epica. Il centrosinistra, resse, all’epoca, in Emilia-Romagna (ma solo dopo una campagna elettorale condotta casa per casa, al fulmicotone e in cui proprio la Schlein lanciò la sua lista ‘Coraggiosa’, in appoggio a Bonaccini) e, ultima vera enclave, in Toscana. Poi ci sono state le vittorie (meglio sarebbe dire: i trionfi) di riconferma di Toti in Liguria e di Zaia in Veneto, una doppia vittoria storica, almeno per le ex terre irredente (la Lega che espugna la provincia di Trento e la Svp che si allea al centrodestra in quella di Bolzano) e, infine, le ‘scontate’ vittorie del centrodestra in Lombardia, con Fontana, e in Lazio, con Rocca. Volendo tacere della Sicilia che, o con Musumeci o con Schifani, resta sempre appannaggio della destra-centro, e della Sardegna, di cui si è detto, o del piccolo Molise, finito a sua volta a destra, il centrosinistra ha preso batoste storiche in Lazio, che governava ininterrottamente da dieci anni, e pure in tutte le altre regioni dove, come in Friuli, le elezioni sembravano sempre un inutile orpello, con candidati mai davvero entrati in partita, senza voler risalire alla caduta di antichi bastioni come Umbria, Marche o anche, di lontano, la Sardegna. Nel 2024 si rivoterà in Campania e Puglia e il centrosinistra potrebbe perdere quel poco di potere che ancora ha. Sarebbe la debacle finale. Perché farla così lunga sui governi delle Regioni?
Perché è evidente che, come insegna tutta la storia patria, dalla Prima Repubblica in poi (nella Prima alla nascita delle ‘giunte rosse’ seguiva l’avanzata del Pci, nella Seconda alle vittorie alle Regionali seguivano le vittorie dell’Ulivo), sono le elezioni regionali le più prossime alle Politiche per struttura, composizione e tipologie di scelte dell’elettorato. Infatti, i dati delle Regionali, sono molto più vicini ai risultati dei partiti alle Politiche, a volte persino più delle elezioni europee (dove, votando con il proporzionale, si finisce per premiare più il partito che il candidato, nella testa dell’elettorale), di certo più delle comunali. Certo, il centrosinistra si bea di avere, dalla sua, molti sindaci di grandi centri urbani, ‘capitali’ d’Italia che contano (Torino, Milano, Firenze, Bologna, Roma, Napoli, Bari). Vero, ma è anche vero che, oltre al fatto che anche in questo genere di elezione, sempre più di recente, diverse città di peso sono cadute nel centrodestra (Venezia, Genova, Palermo), i sindaci italiani – che hanno, si capisce, grandi meriti perché quelli più ’in prossimità’ ai bisogni dei cittadini – al massimo, sulle scelte politiche di fondo, possono ‘fare colore’. Come nella protesta ‘di massa’ sulle adozioni delle coppie monogenitoriali o in generale sui diritti civili che, specie nelle grandi città (ultime enclave del voto dem, in quanto ormai abitate per lo più da ceti medi affluenti), caratterizzano sempre più le issues della sinistra. Ma le elezioni – nazionali – si vincono (così insegnano le serie storiche e la politologia, sia italiana che europea) nelle regioni e alle regionali. Dove il centrodestra può pescare uomini solidi, preparati, innovatori, moderati ma autonomisti (Zaia e Fedriga nella Lega, che potrebbero, prima o poi, scalzare Salvini, o Acquaroli nelle Marche, pupillo della Meloni o Occhiuto dentro FI, di cui era già uno degli elementi migliori in Parlamento) mentre il centrosinistra può solo contare su ras locali che non hanno intenzione di togliere il disturbo al prezzo di far perdere le prossime elezioni al Pd (il re dei ‘cacicchi’ De Luca in Campania) o solo al prezzo di lauta buonuscita (Emiliano in Puglia). Oppure su candidati sconfitti alle primarie (Bonaccini in Emilia), che neppure possono ricandidarsi e ora devono patire le stimmate del looser. Oppure su candidanti vincenti ma che non sono stimati al ‘nazionale’ (Giani in Toscana). Morale, il centrosinistra, entro due anni, rischia di restare in mano, a livello di regioni, con la sola Toscana. Un po’ poco per chi pretende di voler governare il Paese. Senza dire del fatto che, con il 20% dei voti, anche se questo 20% diventa 25% in coalizione con altri micro-partitini e 30-35% sommato ai 5Stelle, resta sempre dieci abbondanti lunghezze sotto qualsiasi formazione di centrodestra anche se guidata da un mulo. E, in questo caso, c’è invece la Meloni, prima premier donna del Paese e ancora in piena luna di miele con l’elettorato. Se il governo non farà errori marchiani, non perderà i soldi del Pnrr e non si perderà dietro assurde polemiche, e gaffes micidiali, sull’antifascismo (si attendono dichiarazioni sensate sul 25 aprile) non solo governerà 5 anni, ma avrà ancora al suo arco la possibilità di farlo per molti anni ancora. Il trend delle regionali degli ultimi anni dice così. E i numeri, di solito, sono più cocciuti dei sogni.