Non facciamo le mammolette, e soprattutto non mi presterò io a una sdolcinata impostura: in una democrazia, i confronti e anche gli scontri sono fisiologici. Di più: sono l’essenza stessa della fisiologia democratica.
Bisogna sempre diffidare di quelli che invocano unità e unanimità: al contrario, alcuni secoli di democrazia occidentale ci hanno insegnato che la formula più efficace di convivenza, la meno violenta e prepotente, è basata sulla coppia “maggioranza/minoranza”, sul fatto che Tizio sia il chiaro vincitore e Caio il fiero oppositore, ciascuno dotato di una funzione democratica essenziale. Naturalmente, affinché il patto regga, occorre la ragionevole certezza di poter sempre scrutinare la maggioranza pro tempore e di poterla eventualmente sostituire nella successiva prova elettorale.
Dentro questa cornice (tu hai vinto, io ho perso, e la prossima volta gli elettori torneranno liberamente a giudicarci), ogni confronto anche aspro è benvenuto, salutare, fecondo.
Tutto ciò premesso, occorre però evitare che la divisione fisiologica – quella appena descritta – si trasformi in un veleno mortale e non necessario, nella reciproca (o unidirezionale, ma l’effetto è lo stesso) contestazione della legittimità altrui come interlocutore.
Pensate – a mente fredda – a ciò che è successo alla vigilia della Prima alla Scala. Dimenticate l’urlatore antifascista, figura ai limiti del folklore, e concentratevi sul giorno prima, sulle lunghe ore che sono state incredibilmente necessarie per far accettare a un Sindaco l’idea di sedersi nella stessa fila e nello stesso palco di un Presidente del Senato di altro schieramento politico.
Se non riusciamo nemmeno a sederci gli uni accanto agli altri per ascoltare Verdi, dove pensiamo di poter andare? Pensiamo – che so – di condurre una civile e ordinata discussione sulle riforme costituzionali? Mi pare purtroppo dolorosamente improbabile.