Politica
Meeting di Rimini, parla il presidente Bernhard Scholz
Di Pietro Cristoferi
Il prossimo 20 agosto si apre a Rimini il Meeting per l’amicizia fra i popoli, la kermesse legata al mondo di Comunione e Liberazione, l’evento estivo che ogni anno richiama oltre 500mila visitatori durante tutta la settimana. Incontri, eventi, mostre, un palinsesto sempre ricco di proposte e temi, ma anche un buon palco per politici ed esponenti del mondo della società civile. Bernhard Scholz, Presidente della Fondazione Meeting, lancia la proposta del Meeting di Rimini per tutta la società civile: in un tempo di incertezza creare luoghi in cui il dialogo e il confronto siano alla base per costruire il futuro della nostra società.
Il titolo del Meeting “Una passione per l’uomo” presuppone la centralità dell’uomo. Perché ritenete sia utile ragionare su questo tema nel tempo che stiamo vivendo? Come questa centralità può essere una soluzione per affrontare le sfide del nostro tempo?
«Se l’uomo riprende o approfondisce la coscienza di essere voluto, che la sua vita non è frutto di un caso, di un processo storico fisico-biologico ma è abbracciata da una passione, è facilitato a riconoscere la sua libertà in un nesso profondo con una responsabilità. In questo modo non solo vive la propria vita con maggiore intensità e gusto ma diventa soggetto creativo anche in circostanze avverse. Altrimenti oscilla fra ribellione e rassegnazione con tutte le conseguenze sociali e politiche. Proprio per questo una passione per l’uomo è una passione che porta a una nuova autocoscienza sia nella persona fragile e sofferente, sia nella persona che si ritiene autosufficiente e protesa solo alla ricerca del potere. Mi sembra che questo approccio non risolva le sfide del nostro tempo ma mette le persone in grado di affrontarle nel modo più giusto e con maggiore efficacia».
Il dialogo con la politica è sempre stato uno dei temi cruciali del Meeting di Rimini. Ogni anno molti dei rappresentanti delle istituzioni e dei maggiori partiti sono presenti all’evento. Ci avviciniamo con rapidità alle elezioni anticipate del prossimo 25 settembre, la campagna elettorale è già entrata nel vivo. Rispetto alla proposta del Meeting, riportare al centro l’umano, quali sono le domande da fare a politica e istituzioni e quali sono le risposte che chi è impegnato in politica deve dare in questo senso?
«Le domande principali riguardano l’educazione, la famiglia, la scuola, l’università, la formazione professionale in generale. Dobbiamo mettere al centro tutto ciò che riguarda le giovani generazioni per uscire da una visione miope, focalizzata sul presente a discapito del futuro, che anzi crea fardelli sempre più insopportabili per chi verrà dopo di noi. Solo così i nostri figli possono vivere bene e acquisire le conoscenze e le competenze necessarie per uno sviluppo scientifico veramente utile, un’economia sostenibile, una politica al servizio della società nel suo insieme. Le risposte che attendiamo sono investimenti mirati per creare un corpo docenti retribuito e attrezzato adeguatamente, creare carriere universitarie competitive con gli atenei esteri, in grado di valorizzare i giovani italiani che brillano negli altri paesi e mancano al nostro sistema formativo. Un’ulteriore domanda riguarda l’attenzione a tutte le realtà che creano competenze lavorative, anche e soprattutto quelle che richiedono l’intelligenza manuale, che fa parte del patrimonio culturale italiano. Poi non si capisce proprio perché non si sia ancora riusciti a raggiungere agevolazioni fiscali robuste per le famiglie e misure per sostenere la compatibilità famiglia-lavoro. I primi passi sono stati fatti con l’assegno universale, ma è solo un inizio».
Le prossime elezioni configureranno un radicale cambiamento della classe politica: gli schemi con cui avevamo imparato a dialogare con la politica si sono dissolti in poco tempo e nel giro di una legislatura. In quest’ottica quanto è importante il ruolo che giocano i cattolici impegnati in politica e nella società civile? E in cosa consiste questo impegno?
«I cattolici in politica portano almeno tre esperienze importanti. La prima: demistificare la politica da attese messianiche che crescono quasi proporzionalmente all’impatto culturale della secolarizzazione. I nazionalismi e un benessere preteso a tutti costi stanno diventando idoli che creano inevitabilmente delusioni, che a loro volta concludono in un’ulteriore radicalizzazione ed estremizzazione. La seconda: una responsabilità che si impegna con realismo e prudenza per una politica sussidiaria, cosciente del fatto che il bene comune nasce prima di tutto dalla società civile e deve essere favorito e sostenuto dalla politica. Soprattutto nel caso in cui un politico sia coinvolto in una vita comunitaria, sarà maggiormente rafforzato nel suo tentativo di vivere il potere come servizio e non come forza risolutiva. La terza: anche quando ci si impegna in partiti diversi, la stessa appartenenza alla Chiesa crea legami che favoriscono l’ascolto e il rispetto reciproco, il dialogo e il confronto costruttivo, tutti elementi decisivi per una democrazia parlamentare. In questo dialogo si favorisce anche l’acquisizione delle competenze necessarie e l’osservazione della realtà, superando in questo modo una riduzione della politica a sterili contrapposizioni polemiche che hanno un certo effetto mediatico ma ostacolano anche una consapevolezza della natura dei problemi».
Gli ultimi sei mesi hanno lacerato l’Occidente con lo scoppio della guerra in Ucraina, quale può essere il messaggio di speranza che dal Meeting di Rimini per l’amicizia tra i popoli di quest’anno si sente di lanciare?
«Cerchiamo di seguire l’invito di Papa Francesco al coraggio di costruire la pace. Porteremo testimonianze dall’Ucraina e dalla Russia ma anche da altri parti del mondo per documentare che esiste nell’uomo un’irriducibilità di bene che gli permette di costruire anche sotto le bombe e tra le macerie. Abbiamo una mostra sul Memorial di Mosca che racconta i tentativi, spesso senza successo, che i prigionieri dei Gulag facevano per mantenere i rapporti con famigliari e amici. La speranza sono “gli artigiani della pace” come li chiama Papa Francesco, che colgono anche le pur minime occasioni per creare la pace nella politica, nella società, nella Chiesa. L’apertura del Meeting di Rimini è un incontro con il cardinale Nzapalainga, arcivescovo di Bangui in Centrafrica, monsignor Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini e monsignor Pezzi, arcivescovo della Madre di Dio di Mosca. Penso che questo incontro aprirà un orizzonte di speranza che emergerà anche in altri incontri del Meeting di Rimini».
Sempre sulla guerra in Ucraina sembra che gli appelli alla pace arrivino principalmente da Papa Francesco. Recentemente ha dichiarato che la crisi ucraina avrebbe dovuto essere una sfida per statisti saggi, capaci di costruire nel dialogo un mondo migliore per le nuove generazioni. Il suo richiamo rischia di essere inascoltato?
«Non penso che sia del tutto inascoltato, penso invece che la strada che indica sia senza alternativa ma al contempo tutta da costruire, con grande impegno e fatica. Il dialogo ha sempre bisogno di due parti che lo cercano o almeno lo accettano. La guerra si può imporre, la pace no. La possiamo implorare, la possiamo e la dobbiamo chiedere con insistenza, cercando tutte le vie possibili per cambiare la visuale dell’interlocutore, per esplorare nuove soluzioni. Le sofferenze e i danni di questa guerra sono talmente grandi che chiunque abbia un minimo di ragionevolezza fa di tutto per fermarla. Speriamo che vinca la ragionevolezza anche in chi si è fissato su un concetto ideologico violento».
L’esperienza del covid ha allontanato le persone, in compenso ci siamo resi conto di quanto fosse importante e imprescindibile l’unione a livello sociale e politico. È stata una prova in base alla quale i popoli europei si sono uniti. Usciti da questa lezione, paradossalmente siamo entrati in un’altra crisi, quella della guerra in Ucraina, che ha allontanato i popoli. Si sono nuovamente create due sfere di influenza globale (come un tempo) che dividono la società internazionale. Di fronte a questo quali sono i rischi a livello socio culturale e anche politico e cosa bisognerebbe fare per superare queste distanze nell’ottica di una società globale più unita?
«L’unica strada è rimettere al centro l’interdipendenza come fattore positivo di una crescita per tutti. Ci sono tanti fatti e argomenti che documentano che la collaborazione fra nazioni non è sempre facile, ma alla fine si traduce in un vantaggio per tutti, culturale ed economico. Certamente bisogna rivedere certe modalità e regole degli scambi e dei rapporti per evitare supremazie e nuove forme di colonialismo, anche culturali. La globalizzazione ha avuto e ha ancora rischi e effetti collaterali negativi, ma al contempo ha fatto vedere che esistono possibilità di superare i confini creando nuove opportunità per tutti. Specialmente i paesi in via di sviluppo devono essere coinvolti in un modo equo negli scambi produttivi e commerciali, anche se questo costa qualcosa in più ai paesi del nord del mondo».
Le nuove frontiere portano nuove sfide. Di fronte al tema della transizione digitale, qual è il ruolo dell’etica nella tecnologia, soprattutto rispetto al sensibile tema dei dati? Nell’affrontare questo processo regolatorio del digitale, con riferimento allo scambio e utilizzo di dati informatici, in che modo l’etica anche in questo campo può ispirare la tutela di queste informazioni?
«Esiste certamente un problema serio dei dati cosiddetti “sensibili”. Perciò parlamenti e governi devono guardare l’evoluzione tecnologica con la massima attenzione e formulare regole che possano essere poi anche controllabili nell’applicazione. Penso che su questo campo una collaborazione fra gli Stati possa essere di grande aiuto, trattandosi quasi sempre di realtà internazionali potrebbe essere quasi decisiva per la riuscita. Al contempo non dimentichiamo l’intelligenza artificiale nel suo impatto nel mondo della sanità, della giurisprudenza, dell’automotive, della robotica in generale. Sono temi che pongono il problema della responsabilità personale e civile con grande urgenza. Anche in questo caso penso che solo una cooperazione internazionale possa dare direttive che evitano zone grigie potenzialmente nefaste per la vita dei singoli e delle società».
“La verità è che ti fa paura l’idea di scomparire, l’idea che tutto quello a cui ti aggrappi prima o poi dovrà finire” canta Brunori Sas che quest’anno sarà ospite anche di uno degli spettacoli del Meeting di Rimini. Di fronte a questo crollo degli ideali e del fatto che nulla regge di fronte all’impatto della vita, quali sono gli anticorpi umani che dobbiamo sviluppare per non cadere nelle difficoltà che caratterizzano il nostro presente?
«Uno degli anticorpi più importanti è un’ultima sincerità con se stessi: prendere coscienza del proprio desiderio di felicità che si esprime attraverso tutte le nostre attese e le nostre azioni e prendere coscienza che non siamo noi a poter creare una risposta a questo desiderio, anzi non siamo neanche in grado da soli di viverlo in modo autentico. Allora mettiamoci insieme alla ricerca, seguiamo la traccia di questo desiderio con semplicità e ascoltiamo chi ci può testimoniare un ideale in grado di aprire una strada verso un compimento pieno e duraturo. Senza pretesa ma con attesa vera, aperta, curiosa. E la carta di tornasole ce l’ha ciascuno: o l’ideale mi permette di crescere e di maturare nelle circostanze belle della vita ma anche in quelle meno belle o anche dolorose, oppure non è un ideale che può rendere veramente felici. Senza un ideale reale ci si attacca poi inevitabilmente alle varie ideologie, agli idoli del momento, ai vari complottismi nell’illusione di trovare una certezza esistenziale. Il titolo del Meeting è tratto da un intervento di don Luigi Giussani al Meeting di Rimini del 1985 nel quale afferma che il cristianesimo non è nato come religione ma come passione per l’uomo. Forse è arrivato il momento di riscoprire questa passione nella sua essenzialità ideale e perciò esistenziale».