Politica

M5S, l’espulsione di Di Maio solo rinviata?

20
Giugno 2022
Di Giuliana Mastri

Nel M5S la resa dei conti è sfumata per un soffio. Ieri nella riunione del Consiglio nazionale il capo politico Giuseppe Conte voleva capire in quanti sarebbero d’accordo a dare il benservito a Luigi Di Maio, attuale ministro degli Esteri, ma incompatibile con la formazione che ha contribuito a far ascendere. L’espulsione è rinviata. L’incontro di ieri è stato un pre-ultimatum. A frenare, probabilmente Grillo, che ha detto a Conte di aspettare lasciando che Di Maio vada via da solo.

L’attuale fase politica determina infatti una spaccatura tra il gruppo e il membro del governo, ormai sempre più palesemente atlantista ed europeista. Mentre all’interno del Movimento Cinque Stelle, un partito atipico senza correnti evidenti ma eterogeneo nelle idee politiche, vivono sentimenti anti-bellicisti e insofferenti verso le ingerenze di Joe Biden nelle decisioni riguardo alla questione della guerra in Ucraina. L’ex premier Conte da tempo ribadisce chiaramente di essere contrario all’ulteriore invio di armi, difficilmente potrà far valere la posizione; poichè il sostegno militare indiretto è stato già votato con il primo decreto. Non stupisce tuttavia l’opinione di Conte, che interpreta l’animo più di sinistra dell’universo 5Stelle. Ad ogni modo, il suo ministro la pensa diversamente. Domani al Senato l’ala pacifista del Movimento tenterà di arrivare al dunque, opponendosi alla risoluzione che Mario Draghi presenterà introducendo il Consiglio Europeo del 23 e 24 giugno. Previsto nel documento un nuovo invio di armi, ma anche l’adesione di Kiev all’Ue, gli aiuti per famiglie e imprese, il RepowerEu per l’energia, la revisione del Patto di Stabilità e linee programmatiche sul futuro dell’Europa. Cinque punti su cui tutti sono d’accordo, ma manca la quadra sul sesto. Appunto quello delle armi. Una parte dei grillini chiederà che ogni ulteriore invio di armi passi prima dal Parlamento.

Oltre le divergenze sull’Ucraina c’è anche la diatriba tutta interna, ma non meno importante, del vincolo dei due mandati. Luigi Di Maio non è più affezionato a quella norma ed è lecito pensare che sia orientato a non osservarla. Eppure su questo il vertice vuole tenere. Ne va dell’identità del Movimento. Una caratteristica che lo fa percepire diverso rispetto agli altri. Al di là che tale disposizione sia sensata oppure no. In caso di un’eventuale divorzio tra il ministro degli esteri. Quanti eletti lo seguirebbero? Dai 15 ai 30 tra Camera e Senato, pare dalle indiscrezioni. Quelli d’accordo con l’immagine di un M5S più organico alle istituzioni. Attualmente il M5S ha 155 rappresentanti a Montecitorio e 72 a Palazzo Madama. Dalla parte di Di Maio, tra i più affermati, ci sarebbero Vito Crimi, Laura Castelli e Vincenzo Spadafora. Mentre Paola Taverna e il ministro dell’agricoltura Stefano Patuanelli appoggiano Conte.

Comunque non sarebbe abbastanza per far cadere il governo. Anche se una situazione del genere è certamente scomoda. Se la rottura si concretizza, ci si ritrova con un ministro sfiduciato dal suo partito. E qualora altri parlamentari dovessero dismettere la casacca del M5S, le altre forze politiche sarebbero prevedibilmente indotte a chiedere una ricomposizione dell’assetto di governo. Sentimento questo già chiaro a destra, con il Pd di Enrico Letta che prova in queste ore a favorire un intesa. Ma più il Pd si mostra proteso verso l’asse con i grillini, più le altre forze dell’area progressista possono spingere sull’idea che il Partito Democratico sia una realtà impantanata. L’occasione non sfuggirebbe a Calenda. Mentre Articolo Uno, che forma l’esecutivo con il Movimento, è certamente in imbarazzo. E Renzi lancia il monito: i fuoriusci non guideranno il centro.

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