Politica
L’ossessione (perdente) della sinistra per il ‘Cavaliere nero’
Di Ettore Maria Colombo
La frase (icastica) di Giorgio Gaber sul Cav.
“Non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me”. La frase, erroneamente attribuita al grande Giorgio Gaber (il quale, in realtà, in una intervista la citava attribuendola a un suo amico cantautore, Gian Piero Alloisio, che la disse cioè per primo), è diventata iconica e icastica, nel lungo e travagliato rapporto che intercorre tra la figura di Silvio Berlusconi e la sinistra italiana. Solo che va rovesciata in questo senso: la sinistra temeva, e lo ha fatto per cinquant’anni, sia Berlusconi ‘in sé’ che Berlusconi ‘in me’, cioè dentro se stessa. Cerchiamo di capire come e perché di un rapporto che oggi appare ‘risolto’ (le dichiarazioni di lutto e cordoglio da parte di attuali e antichi avversari del Cavaliere, in queste ore, si sprecano ma trasudano, oltre a sincera commozione, ipocrisia), ma che non lo è mai stato. Partiamo da lontano.
Il costruttore edile diventa il tycoon mediatico
Il ‘costruttore’ Berlusconi viene sostanzialmente ignorato, se non irriso, dalla sinistra politica. Solo Giorgio Bocca, a metà degli anni Settanta, si accorge e intervista pure quello che reputa un ‘palazzinaro’ che vuole fare carriera, scalpita e punta a costruire, come farà negli anni Ottanta, un piccolo impero mediatico fatto di tv e giornali. Quello che poi diventerà, per Bocca, che pure lavorò in vari programmi della e per la Fininvest, “il piccolo Cesare”, era poco di più di questo, per la sinistra. Un ‘palazzinaro’ dalle oscure amicizie e frequentazioni, ma senza capirne l’importanza perché, per la sinistra, esistevano ‘solo’ i giornali e, pur Berlusconi possedendo quote del Giornale di Indro Montanelli, la sua rete di tv commerciali era ritenuta innocua. Mai errore fu più grande. Le tv di Berlusconi plasmarono, piano piano, l’immaginario televisivo, contaminando la Rai, fino agli anni Ottanta immune dalle ‘negatività’ delle tv private (giochi a premi, quiz, programmi per casalinghe, programmi di evasione, ‘leggeri’). Poi, la svolta. Berlusconi diventa amico personale di Bettino Craxi, leader del Psi, che la sinistra (comunista come pure di derivazione azionista, quindi repubblicana, indipendente, radicale, etc.) vedeva come il primo ‘Uomo Nero’ della storia italiana dai tempi di Benito Mussolini (sic).
La colpa primigenia: l’amicizia con Craxi
Il binomio, prima solo personale e amicale, poi politico, permette a Craxi di imporsi, sulla scena, come colui che vuole ‘svecchiare’ la Sinistra. Berlusconi, con le sue tv, lo aiuta a farlo. Per la sinistra diventa, presto, un nemico da abbattere, oltre che un sodale dell’arcinemico Craxi che da un lato vuole scardinare l’egemonia culturale del Pci e, dall’altro, vuole sostituire il predominio dc (placido e indolore), dentro i governi pentapartito, al governo, con un piglio decisionista inusuale, per i tempi, che per la sinistra è già ‘dittatoriale’. Il decreto (anzi, i decreti, detti non a caso ‘decreti Berlusconi’) sulle tv del governo Craxi, che permettevano alle reti Fininvest di trasmettere sul piano nazionale e in contemporanea (poi dichiarati incostituzionali dalla Consulta) vennero sanati, paradossalmente, non da un governo Craxi ma dal decreto Mammì del VI governo Andreotti. Fu la svolta, per le tv di Berlusconi, ma anche per la sinistra: alla ostilità preconcetta del Pci e affini si saldò la reazione furiosa della sinistra della Dc che vide cinque ministri (tra cui Mattarella…) dimettersi dal governo in segno di protesta. Prontamente sostituiti, quell’episodio del 1990 possiamo dire che segnò, ante litteram, la nascita dell’Ulivo e poi del Pd. Due culture diverse e, teoricamente, lontane, il comunismo di matrice berlingueriana, quello della ‘diversità’ culturale (e politica) dal malaffare, delle stimmate dell’onestà come dei valori dell’antifascismo si saldò alla visione – altrettanto integerrima – della sinistra dc di derivazione cattolica dossettiana, secondo cui il racconto dell’Italia non poteva che essere, e restare, virtuoso e, insieme, arcaico. Una visione da civiltà contadina e operaia che vedeva solo in quelle due grandi culture (la cattolica e la comunista) le forze ‘responsabili’ e ‘positive’ del Paese, escludendone, dunque, per presunta indegnità morale, tutte le altre, compresa la socialista, e soprattutto vivendo ogni riconoscimento sociale ed economico (la ricchezza, il benessere, l’industrializzazione, il protagonismo, figurarsi il cedimento sui principi) tipico di una cultura laica, calvinista, moderna e modernizzante come una colpa, se non un reato. Era, insomma, l’Italia ‘in bianco e nero’ degli anni Sessanta e Settanta che si contrapponeva all’Italia ‘a colori’ dell’Italia degli anni Ottanta.
Il ciclone Mani Pulite e l’irruzione sulla scena
Poi, però, arrivò il grande ‘turning point’ della storia nazionale. Il biennio 1992-1993 dell’azione dei giudici di Mani Pulite e della stagione di Tangentopoli (preceduto, in realtà, dalla rivolta silenziosa dei cittadini, via referendum elettorali Segni, contro il Caf di Forlani-Andreotti-Craxi) travolse il sistema dei partiti della I Repubblica. Berlusconi, dopo un primo abboccamento, finito male, con lo stesso Segni, che voleva incoronare (Segni rifiutò e gettò ‘il biglietto della lotteria’), e dopo aver cavalcato, mediaticamente, l’azione dei giudici, con le sue tv, pur senza rinnegare l’amicizia personale con quello che era diventato il ‘cinghialone’ da abbattere, cioè lo stesso Craxi, capì che, dalla fine di un sistema, ne poteva nascere un altro per lui potenzialmente nocivo. La sinistra, la coalizione dei Progressisti già nei fatti (si andava dalla Rete di Orlando e dal Prc di Cossutta fino al Pds passando per Verdi e altri ‘democratici’), vinceva elezioni comunali e regionali uno dietro l’altro, causa il collasso delle forze del pentapartito, decimate dalle indagini. La prima grande svolta, il primo ‘posizionamento’ pubblico del patron di Fininvest, è la dichiarazione di voto a favore di Gianfranco Fini (“se votassi a Roma voterei per Fini”) che si presentava, al ballottaggio, contro il verde Francesco Rutelli, sostenuto da tutti i Progressisti, che pronunciò il 23 novembre 1993 inaugurando un supermarket a Casalecchio di Reno. Fini perse ma prese il 47% dei voti anche grazie Berlusconi.
Nasce il pregiudizio contro il ‘Cavaliere Nero’
Per la sinistra italiana nasce lì il concetto che il quotidiano il manifesto, coi suoi titoli fulminei e spesso azzeccati, definì, il giorno dopo quelle parole, “il Cavaliere nero”. Un epiteto che, di fatto, ritornerà più volte, direttamente o in modo surrettizio, nell’atteggiamento verso Berlusconi. “L’uomo che ha sdoganato i fascisti” (An di Fini non aveva ancora compiuto la svolta di Fiuggi) è rimasto un peccato mortale, per la sinistra italica. Berlusconi, però, restituì il colpo poco dopo. Dire che si potevano votare, alle elezioni, gli eredi del Msi (e dunque, per la sinistra, della Rsi di Salò!), era la prima pietra di quello che sarà la coalizione ‘rainbow’ messa in campo da Berlusconi alle politiche dell’anno seguente, quando si votò – il 27/28 marzo del 1994 – per elezioni decisive. La ‘genialata’ delle due diverse coalizioni (il Polo delle Libertà con la Lega al Nord e il Polo del Buongoverno con An al Sud) fu il coronamento dell’altro colpo di genio, la creazione di Forza Italia. Quello che, per la sinistra, era soltanto un ‘partito di plastica’, fatto da ‘venditori’ e ‘imbonitori’ e non da dirigenti e militanti, ebbe un successo incredibile e immediato che spiazzò e spazzò via le fragili illusioni di una sinistra che si pensava già sicuramente vincente su quello che riteneva né più né meno un parvenu della politica.
Berlusconi inventa il bipolarismo, la sinistra perde le staffe: prova inutilmente ad arginarlo
Il problema vero – al netto degli errori tattici, sintattici e persino cromatici (la giacca da travet d’ufficio e i baffi di Occhetto durante il fatale confronto tv con Berlusconi, ospitato da Mentana: un vecchio apparatinik del bolscevismo contro l0imprenditore in blazer blu ‘col sole in tasca’) – è che la sinistra non seppe capire, né prevedere, che iniziava una lunga stagione non ancora finita, quella del bipolarismo politico tra due assi o poli che, negli altri Paesi, erano di fatto già solide realtà: il centrodestra contro il centrosinistra, versione edulcorate di due sottostanti verità, la ‘destra’ contro la ‘sinistra’. Con la differenza che mentre la sinistra veniva schiacciata sui suoi fantasmi e sulle storie del suo passato ‘comunista’ la ‘destra’ impersonificata da Berlusconi era liberale, liberista, laica, garantista, cioè moderna, contro una sinistra statalista, giustizialista, stantia. Vera o falsa che fosse la dicotomia, Berlusconi seppe imporre la forza dell’alternanza a italiani che solo nel secondo dopoguerra avevano davvero scelto tra due modelli: Dc e cristianesimo contro Pci e ateismo, capitalismo o comunismo. Tatticamente, inoltre, la sinistra credette in una capacità elettoral-politica manovriera del centro (la mini coalizione PPI-Patto Segni) che avrebbe dovuto allearsi a essa ‘dopo’, in Parlamento, ma che venne schiacciata dalla bipolarizzazione e che, presto, si sarebbe sciolta come neve al sole. Cosa restava alla sinistra sconfitta dentro le urne? La retorica antifascista e militante che portò alla grande manifestazione del 25 aprile 1994 a Milano che, di nuovo indetta contro il ‘pericolo’ fascista e contro il ‘Cavaliere nero’ portò, è vero, un milione di persone in piazza e sotto la pioggia, ma sulla falsariga delle ‘piazze piene, urne vuote’ di Nenni: Berlusconi rimase in sella tutto l’anno e cadde solo perché Bossi ruppe l’alleanza con lui.
La sola vera capacità di reazione sta nell’Ulivo
La prima, vera, risposta della sinistra a un ‘azzurro’ berlusconiano imperante (ancora alle elezioni europee del 1994 FI raggiungeva il suo massimo storico, superando il 30% dei voti) fu, sul piano della tattica di palazzo, il governo Dini (il famoso ‘ribaltone’) e, poi, la nascita dell’Ulivo quando, finalmente, la sinistra capì la lezione e contrappose una coalizione di vero centrosinistra (e, in nuce, un partito nuovo che non nacque mai) al centrosinistra. Vinse, però, le politiche del 1996 solo perché la Lega si sottrasse all’abbraccio del Cavaliere e il Prc garantì la ‘desistenza’ nei collegi a favore dell’Ulivo. Fu, in ogni caso, Romano Prodi il vero, e storico, antagonista del Cavaliere nei vent’anni seguenti. Diverso da Berlusconi in tutto, tranne che in una cosa (il piglio bonario, rassicurante, moderato), Prodi capì che solo proponendo, agli italiani, una visione diversa, ma positiva e costruttiva, di Paese si poteva avere ragione di chi, sia che fosse al governo come quando andò all’opposizione, vendeva ‘sogni’ agli italiani (un milione di posti di lavoro, l’abolizione dell’Ici, dell’Imu, etc.). Ma, fin troppo presto, la sinistra – via via sempre e più volte perdente – da un lato delegittimò Prodi (che, a differenza di Berlusconi, non ebbe mai un partito suo né la forza per tenere a sé gli alleati) e, dall’altro, si rifugiò nell’antiberlusconismo di maniera. Una vera e propria ossessione che fece entrare, appunto, un termine – antiberlusconismo – nelle categorie della Politica del nuovo secolo.
La lunga ossessione dell’antiberlusconismo
La sinistra – sia di lato cattolico (PPI-Margherita) che di lato post-comunista (Pds-Ds) – si nascose, per debolezza intrinseca, baruffe tra capi e capetti (le famosi baruffe tra D’Alema e Veltroni, entrambi ostili a Prodi), incapacità di produrre vere e comprensibili proposte programmatiche, dietro l’unico messaggio dell’antiberlusconismo. Dal cattolico Oscar Luigi Scalfaro, capo di Stato, al leader della Cgil, Sergio Cofferati, passando per un lungo stuolo di cineasti (su tutti, Nanni Moretti), cantanti, artisti, intellettuali, comici (sic) il leit motiv della sinistra divenne solo quello di ‘detestare’, se non ‘odiare’, l’uomo Berlusconi e, dietro di lui, tutto il mondo che rappresentava. I processi (tanti) che Berlusconi subisce, l’odore di ‘mafia’ e, addirittura, di ‘stragismo’ che alcune indagini di diverse Procure, negli anni, gli buttano addosso, additandolo come una sorta di Belzebù che, con i soldi (la corruzione) o con le stragi (sic) ha inquinato l’intera storia nazionale. Per non dire, ovviamente, del moralismo moraleggiante che vede, in Berlusconi, il Male persino nei confronti della figura della Donna (ne seguono le rivelazioni pruriginose e ad effetto dei giornali della sinistra, Repubblica in testa, su tutte le possibili, vero o presunte, ‘amanti’ del Cav, raccontate con corredo di particolari lascivi, da Noemi Letitia fino a Ruby al clan delle Olgettine) che le sue ‘cene eleganti’ avrebbero tutte corrotte (considerazione singolare del ‘corpo della donna’, costretta a cedere al Satrapo malato e lascivo). Ecco, questa la narrazione della Sinistra sul Cav.
Chi viene a patti col Cavaliere è un ‘traditore’
Una posizione di comodo che impediva, però, di uscire da una condizione di minoranza nel Paese. Chi provò, nel prosieguo, a ‘venire a patti’ col Cavaliere Nero (Massimo D’Alema con la Bicamerale, Matteo Renzi col patto del Nazareno) assunse subito le vesti e le stimmate del traditore al punto che persino un dirigente ‘a-comunista’ come Veltroni lo chiamava, in modo ridicolo, “il principale esponente dello schieramento a noi avverso” nel ridicolo tentativo di nasconderne la forza e la presenza scenica agli occhi degli italiani. Il grido morettiano ‘con questi dirigenti non vinceremo mai!’, urlato da piazza del Popolo, e la stagione dei girotondi (un mix di intellettuali radicali e gruppettari, sindacati, piccoli partitini) hanno dimostrato, con una conclamata minorità politica e culturale, che la vocazione della sinistra non era più quella di cercare il governo del Paese, ma vivere una condizione di ‘eterna’ opposizione. Non a caso, a tutte le elezioni seguenti (Politiche del 2001, 2008, 2013, tranne l’eccezione del 2006, quando una raccogliticcia Unione, versione confusionaria del primo Ulivo, vinse le elezioni per un pugno di voti) sia Rutelli che Veltroni etc. fallirono l’obiettivo di sconfiggere il Cavaliere che, a ogni diversa coalizione, contrapponeva la formula classica del centrodestra, un vero triplete (FI al centro, Lega e An-Pdl, ai lati, più i minori).
Solo il ‘grande complotto’ europeo del 2013, più che la stessa (fallita) scissione di Fini del 2011, riuscì nell’impresa di disarcionare il Cav dal governo del Paese. Ma ne seguì il governo Monti che, e dopo ancora con il governo Letta (2013), dimostrò che solo con i ‘tecnici’ la sinistra poteva davvero riuscire a tornare nella stanza dei bottoni. E, non a caso, il governo Draghi è stato, con la parentesi del II governo Conte, il coronamento del sogno infranto di una sinistra che riesce a ‘comandare’ solo quando si affida a figure terze.
L’antiberlusconismo diventa una ‘professione’
L’antiberlusconismo, però, ha lasciato tracce e fatto proseliti in modo indelebile. Intellettuali (Michele Santoro, Roberto Saviano, etc.), giudici (le toghe rosse alla Bocassini…), giornali (il Fatto quotidiano) ci hanno costruito fortune e carriere. Il ‘nemico pubblico numero uno’ è rimasto tale. Persino a livello antropologico (nel look, nei modi di porsi, di parlare, di proporsi) la ‘gara’, a sinistra, con la (lodevole) eccezione di Renzi (non a caso definito, da molti, un ‘piccolo Berlusconi’) ha visto generazioni di politici di sinistra proporsi da ‘alternativi’ in tutto al Cav e al berlusconismo. Ma qui va sfatato un mito, costruito a posteriori. Non vi è mai stato, nel ventennio berlusconiano (1994-2013, quando decadde da senatore e insieme nasceva l’astro di Beppe Grillo e dei 5s che, per un breve periodo, hanno ‘tripartizzato’ la politica italiana, solo oggi tornata ‘bipolare’), una Italia divisa in due, tra berlusconiani e anti-berlusconiani. Vi è stata una – vasta e profonda – Italia che cercava un leader, anche a livello fisico (il ‘corpo del Capo’ come da titolo del libro di Marco Belpoliti dimostra come dai trapianti di capelli alla bandana, dal ritocco fotografico alla chirurgia estetica il corpo del Capo è diventato la metafora vivente della nostra stessa idea di corpo, del suo valore e del suo sfruttamento economico), e che in Berlusconi lo aveva trovato e un’Italia – minoritaria, radicale, misogina e finto-perbenista – che lo avversava sulla base di puri pregiudizi.
Salvini e Meloni visti come puri emuli del Cav
Del resto, il tentativo di attaccare ieri Matteo Salvini (stella fugace perché, a differenza di Berlusconi, ha vinto solo precarie elezioni europee) e oggi Giorgia Meloni (stella fissa, ormai, avendo vinto in modo secco le Politiche) sulla base della medesima retorica ‘antifascista’ (oggi la ‘donna nera’ è, ovviamente, la Meloni) non ha attecchito se non nella stessa, sempre più modesta, fascia di antifascisti e sinistra radicale. Gridare, ogni volta, ‘al lupo al lupo’ stanca chiunque. Persino gli elettori più coriacei. Oggi, che anche a sinistra Berlusconi viene rivalutato come un ‘moderato’, un ‘liberale’, un ‘centrista’, è difficile credere che, di volta in volta, di leader in leader, chiunque ne rivendichi l’eredità, rappresenti un serio ‘pericolo’ alla democrazia.
Persino la migliore ‘lezione’ che la sinistra poteva almeno fingere di apprendere, l’inevitabile personalizzazione della politica e la concezione di partiti sempre più leader-centrici (ieri FI del Cav, poi la Lega di Salvini, oggi FdI della Meloni), non è stata recepita e capita bene, dalla sinistra. La quale, dopo aver espunto il modello (ultra-berlusconiano) di Renzi, mangiato ed espulso come un ‘invasore’ dell’altrui campo nel proprio, senza capire che gli stessi 5stelle, con Grillo prima e Conte poi, replicavano lo stesso schema, ha preferito chiudersi in un modello ‘reticolare’ (o, meglio, presunto tale) fatto di parole come ‘territori’, ‘circoli’, ‘iscritti’, ‘primarie’, ‘base’, che volevano rivitalizzare un concetto antico, quello di partito, senza averne più alcuna forza. Ma se del berlusconismo si possono, facilmente, metterne in luce tutti i difetti (il conflitto d’interessi, l’insofferenza per le minoranze, la ricerca del consenso a tutti i costi, la mancanza di un vero confronto interno, gli eccessi privati, etc), il ‘difetto’ principe della sinistra resta quello di non aver capito i meriti e le novità berlusconiane. Dalla ‘cultura del fare’ a quella del ‘merito’, dal valore all’iniziativa privata alla ricerca di una pacificazione nazionale (il discorso di Onna), dalla politica estera di pace e di equilibrio (nonostante le recenti ‘scivolate’ putiniane), ma saldamente ancorate alle alleanze occidentali, alla politica fatta ‘per vocazione’ non per professione. Temi e parole d’ordine ‘calde’, e non fredde, che hanno messo Berlusconi sempre ‘in connessione’ (sentimentale e non) con gli italiani e relegato la sinistra a una visione e a un circolo elitario di ‘radical chic’ e ‘cittadini delle ztl’ che, oggi come nel 1994, non sanno entrare in sintonia col Paese. Ecco perché, oggi, invece che versare inutili lacrime di coccodrillo, la sinistra dovrebbe riflettere su quanto il ‘Berlusconi in sé’ abbia avuto la meglio sul ‘Berlusconi in me’, farne tesoro e ritrovare connessioni sociali, politiche e culturali con un Paese che ‘riconosce’ Berlusconi come suo figlio ma non riconosce più la sinistra come parte fondante e necessaria del suo futuro.
Il rischio è, dunque, che mentre l’Italia cerca un ‘novello Berlusconi’ cui affidare le proprie sorti, la sinistra cerchi solo un nuovo Berlusconi in cui catalizzare solo le sue paure e le sue incapacità.