Politica

L’incapacità delle democrazie di fare i conti con la natura profonda delle autocrazie

01
Marzo 2022
Di Daniele Capezzone

Ancora otto giorni fa, lunedì 21, commentando il primo minaccioso videomessaggio di Vladimir Putin (e, in aggiunta, il filmato in cui umiliava i membri del Consiglio di sicurezza russo, trattati come scolaretti da interrogare), la stragrande maggioranza degli analisti occidentali tendeva a relativizzare, ad attenuare, a smussare, a contestualizzare.

Lasciate perdere le voci (spontaneamente o spintaneamente) note per essere megafoni di Mosca. Anche osservatori neutri, non di rado di qualità notevole, invitavano a non enfatizzare. La tesi era così articolata: Putin – dicevano – non intende rivendicare altro se non il Donbass; non a caso ha elaborato una ricostruzione storica e anche una architettura pseudo-giuridica per giustificare l’intervento solo in quella regione; non si spingerà verso Kiev; non ordinerà un attacco a vasto raggio; non minaccerà altri paesi; non cercherà lo scontro a tutto campo con la Nato e l’Occidente. 

Poco più di una settimana è bastata per smentire – a una a una – tutte quelle previsioni e quei ridimensionamenti della posta in gioco. E ciascuno sa cosa invece sia successo, fino a una doppia evocazione (una prima volta, indiretta e implicita; una seconda volta, diretta ed esplicita) delle armi nucleari. 

Dimenticate per un momento la vostra opinione nel merito: se per voi (come per chi scrive) l’autocrate russo è indifendibile, o se invece (per varie ragioni) ritenete che ci siano motivi per giustificare, se non le sue azioni, quanto meno il suo punto di vista. Ciò che intendo dirvi va al di là del giudizio di ciascuno sugli attori in campo e sulle loro ragioni: ma ha a che fare con lo schema mentale di un regime.

Badate bene: non sto affatto buttandola su una sorta di psicologismo d’accatto, o sulle spiegazioni (sempre superficiali e quasi mai convincenti) sulla “follia” vera o presunta di alcuni protagonisti negativi della storia. Sto invece ragionando sulla natura profonda dei regimi, sulla loro attitudine ad alzare drammaticamente la posta in gioco, sulla loro tendenza a passare con accelerazioni rapidissime da vertenze circoscritte a minacce esistenziali nei confronti degli altri paesi. 

Da molto tempo, noi occidentali abbiamo dimenticato che il mondo è un luogo difficile, popolato anche da nemici. La signora Thatcher, nel suo gigantesco discorso di Bruges nel 1988, spiegò bene che “il nostro modo di vivere, la nostra visione, e tutto ciò che speriamo di raggiungere, è garantito non dal fatto che la nostra causa sia giusta, ma dalla forza della nostra difesa”. E invece, piano piano, abbiamo dimenticato il concetto stesso di deterrenza, che era stato decisivo nella vittoria della Guerra Fredda: e ora, in un surreale reversal of the roles, sono i nostri avversari strategici a usare la deterrenza nei nostri confronti. 

C’è da augurarsi – ex malo bonum – che la triste vicenda ucraina funzioni da sveglia. Il riorientamento della politica tedesca è un primo buon segnale. Ma il segnale migliore verrà quando in Ue saranno definitivamente marginalizzate le spinte verso posizionamenti terzi e ambigui tra Occidente e potenze eurasiatiche. Il nostro posto è accanto a Londra e a Washington, e, su un altro piano, a Gerusalemme.

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