Uppercut al mento. Letta vuole imporre due donne ai vertici dei due gruppi parlamentari, ma Marcucci e Delrio non andranno al tappeto. Primo round oggi, match solo iniziato. Se è vero che oggi si è aperto lo showdown (o presunto tale) tra Letta e i gruppi parlamentari (alle 9 stamattina col gruppo del Senato e nel primo pomeriggio con quello della Camera), è anche vero che la doppia riunione di oggi ‘non conclude’ come direbbe un personaggio di Luigi Pirandello. Infatti, entro stasera, Andrea Marcucci, che guida il gruppo Pd a palazzo Madama (35 senatori), come Graziano Delrio, che lo guida alla Camera (95 deputati) saranno ancora al loro posto.
Il guaio è che, dentro il Pd, a dieci giorni esatti dall’insediamento di Enrico Letta, è già ripartita ‘la bambola’ di un durissimo scontro interno. Il malcontento di molti cresce, anche se va di pari passo con la consapevolezza che sarà Letta stesso a stilare le liste per le politiche 2023. Come dice un deputato di lungo corso, “il lupo travestito da agnello”, cioè Enrico Letta, “è un lupo che consumerà la sua vendetta a freddo”. Ma Enrico ‘c’è’, ha intenzione di restarci e per riuscirci sa di dover fare il prima possibile un partito a proprio immagine e somiglianza. Per dirla meglio, come spiega un big dem ‘riformista’ “sente la missione di fare in due mesi quello che Zingaretti non è riuscito a fare in due anni in un Pd che lo ha logorato fino alle dimissioni…”. Solo che – da uno come Letta – proprio non ci si aspettava il “decisionismo rottamatore”. Dice una fonte parlamentare donna: “Sta dando la caccia ai cattivi, gli ex renziani, sul corpo delle donne…”.
“Cherchez la femme!”. La ‘finta’ sulle donne
“Cherchez la femme!”. La partita, dentro il Pd, tanto per cambiare, si gioca sul ruolo delle donne. Come si sa, almeno finora, la parità di genere è stata rispettata in maniera certosina, oculata e millimetrica dalla nuova gestione di ‘casa Letta’. Come pure, però, l’equilibrismo tra le correnti che Letta un po’ rispetta e un po’ usa a suo fine e vantaggio, scegliendo i nomi più affini e sintonici dentro le tante anime e correnti dem, in una sorta di ‘fior da fiore’ che racconta la furbizia di Letta.
Letta brandisce come un’arma il ‘gender gap’
Ma poi, nella richiesta di Letta – avanzata in due interviste simmetriche concesse a due quotidiani locali la scorsa domenica (il Tirreno, giornale toscano, per parlare ‘in casa Marcucci’ e la Gazzetta di Reggio per sfruculiare ‘casa Delrio’) – di volere “due capogruppo donne” ai vertici dei due gruppi parlamentari, al posto di due uomini (Marcucci e Delrio, appunto), ecco che diventa di palmare evidenza come il gender gap venga brandito più come arma contundente che come ‘questione femminile’ vera dal neo-segretario. Infatti, dove ha potuto (e voluto) lasciare le cose come stavano, Letta lo ha fatto e a sua totale discrezione, come nel gruppo del Pd a Bruxelles. Il gruppo si è riunito venerdì, con Letta collegato via Zoom, ha visto le dimissioni (formali, ma finte) del capogruppo, Brando Benifei (Orlando), subito riconfermato in modo unanime dai suoi 18 colleghi (di cui tre indipendenti: Tinagli, Bartolo, Pisapia), al di là dell’appartenenza correntizia.
Il rischio e la sfida della conta dentro i gruppi
Tornando ai gruppi parlamentari ‘italici’, il punto è che, secondo una narrazione spinta e pompata dal Nazareno, sembrava che già oggi Marcucci e Delrio dovessero fare la valigia e andarsene via. Era già pronta pure la rosa di nomi da cui far uscire i due capigruppo: Valeria Fedeli o Roberta Pinotti, due ex ministre, al Senato, Alessia Rotta o Marianna Madia alla Camera con qualche chanches per Deborah Serracchiani e zero per la ex lettiana (poi zingarettiana) Paola De Micheli.
Ma, altrettanto ovviamente, oggi Marcucci e Delrio non faranno le valigie anche se per motivi diversi. Una cosa è e resta indisponibile, nel Pd: l’autonomia dei gruppi parlamentari. Difficile che Letta possa portare a casa entrambe le teste dei due capigruppo “nell’arco di un paio di giorni o, al massimo, di una settimana perché la partita degli organismi dirigenti va chiusa in fretta” (così dice sempre la narrazione del nuovo Nazareno).
Letta, oggi, al massimo strapperà un pareggio
Se gli va bene, il segretario dovrà dirsi contento se riesce a cambiare un solo capogruppo su due. Nel caso sarebbe il nome di Graziano Delrio a cadere, pur nella consapevolezza – che Letta certamente ha – che in un momento politico così difficile, il capogruppo deve avere doti assai alte. Sicuramente ci sono altre deputate e senatrici all’altezza del ruolo, ma questo non può essere un cambio che viene fatto solo per motivi di genere.
I sacchetti di sabbia: trincea Palazzo Madama
Lo scoglio più duro sembra il Senato dove – su 35 senatori (presto 36 con l’arrivo di Comincini) – Marcucci ha una maggioranza schiacciante: a sua difesa, modello falange romana a testuggine, stanno in 23: 18, tra cui Marcucci, sono di Base Riformista, la componente ex renziana guidata da Luca Lotti e Lorenzo Guerini, tre Giovani turchi, un indipendente (Nannicini) e la new entry (Comincini). Ieri mattina in una infuocata riunione, con le senatrici presenti, la tensione è salita di molto, rispetto alla gestione di Letta. “Altro che unità, questo ci vuole fare fuori. Dopo sette anni la vendetta è ancora più feroce” dice un senatore. Si fa fatica ad abbinare uno come Enrico Letta al concetto di ferocia, ma resta il principio: “diventare lupi travestiti da agnelli”. Comunque, il gruppo ieri mattina ha vissuto quella del segretario come “un’ingerenza rispetto all’autonomia del gruppo” e ha confermato la fiducia a Marcucci che non ha intenzione di rimettere il mandato alla volontà della totalità del gruppo. In un primo momento, sembrava che l’assemblea di stamani non dovesse prevedere il voto, ma il clima è tale per cui si vuole subito blindare Marcucci ed evitare che, col passare dei giorni, qualche senatore possa cambiare idea richiamato dalle sirene del fatto che “le liste, al prossimo giro, le farà Enrico, mica i capigruppo”.
La partita alla Camera è invece più complessa
Come ieri si è incontrato il gruppo al Senato, così anche il gruppo della Camera ieri ha discusso. Qui i numeri sono diversi e gli ex renziani più i Giovani turchi non hanno la piena maggioranza del gruppo (95 deputati): sono una trentina (Br) più sette Giovani Turchi. La ex maggioranza zingarettiana e orlandiana nel partito è, invece, minoranza dentro il gruppo (15 circa i deputati di Orlando e Zingaretti cui vanno sommati i cinque di Area dem di Franceschini), con 20 deputati mentre al Senato sono anche meno (10 senatori). Graziano Delrio, però, non sarebbe mai andato a una prova di forza: per indole e carattere, è disponibile a rimettersi alla volontà del gruppo. Ma oggi il gruppo Camera non voterà: ha deciso di prendere tempo. Delrio, infatti, non è certo uomo di strappi. Vuole mediare, trovare soluzioni anche se “non accetto lezioni sulla parità di genere” ha fatto sapere, puntuto, Delrio a Letta. Anche al Nazareno si lavora sua una mediazione per evitare lo show-down al Senato. Certo è che quando Letta incontrerà i gruppi parlamentari, i capigruppo gli diranno che in modus est rebus, dato che sono stati ‘licenziati’ via… intervista.
Orizzonte Letta: un partito a ‘sua immagine’
Quello che deputati e senatori hanno capito è che Letta vuole costruire un partito a sua immagine e somiglianza. Non lo ha detto, questi errori non si fanno più, ma lo sta facendo giorno dopo giorno. E’ chiaro che l’orizzonte temporale del nuovo segretario è almeno il 2023 e che, dopo aver gestito elezioni amministrative importanti e l’elezione del Capo dello Stato, sarà Letta l’uomo che farà le liste elettorali dem alle politiche 2023. Il timore per molti è di non essere ricandidati solo perché portano le stimmate degli ex renziani. Da qui i veloci riposizionamenti cui si sta assistendo in queste ore, specie nell’area di Base riformista, dove ora in molti si riscoprono ‘amici’ di Letta. Ma se, invece, le importanti amministrative di ottobre dovessero andare male, per Letta, allora comincia di nuovo un altro film. Anche nel Pd.