Sono passati appena trenta giorni dalla stesura definitiva del “Contratto per il governo del cambiamento”, il documento fondativo dello storico patto gialloverde frutto del complicato do ut des interalleato volto a raggiungere un equilibrio fra Lega e M5s. Nelle intenzioni dei contraenti, l’adozione di un programma di legislatura in grado di rivoluzionare l’architettura istituzionale e, soprattutto, di orientare la reciproca attività una volta installati a Palazzo Chigi. Dunque non mera sintesi di posizioni, bensì vero e proprio metodo di lavoro dettato nella necessità di trovare un accordo sui provvedimenti da votare in Parlamento per esorcizzare il pericolo di fughe in avanti e garantire la stabilità del nascente esecutivo. Lega e M5s restano infatti due realtà ben distinte all’interno del panorama politico italiano nonostante finiscano spesso per essere etichettate entrambe come forze populiste e dunque appiattite sulle medesime posizioni. Che rischi può correre allora il “governo del cambiamento” del premier Giuseppe Conte nel momento in cui pericolose forze centrifughe alimentate dalle singole specificità di partito cominciano a sfidare la tenuta della sua coalizione parlamentare? L’evidenza più recente ha portato alla ribalta i tentativi più o meno velati da parte dei due leader alleati di ritagliarsi spazi di manovra e di visibilità autonomi, suscettibili però di mettere a rischio l’equilibrio faticosamente raggiunto.
Da una parte il vocale ministro dell’Interno Matteo Salvini, per certi versi l’autentico mattatore degli ultimi quindici giorni viste le sue nette prese di posizione in materia di immigrazione, Europa, commercio ed economia. Dall’altra il novello superministro dello Sviluppo e del Lavoro Luigi Di Maio, alle prese con nodi altrettanto cruciali per il futuro del Paese quali – evocando soltanto i più recenti – gig economy e Ilva. Il fatto che questi ultimi temi abbiano un impatto sicuramente meno evocativo sull’immaginario collettivo rispetto a quelli cavalcati dai leghisti spiega in parte il malessere montante nella truppa pentastellata nei confronti dell’alleato, capace di monopolizzare l’agenda del governo, di decollare nei sondaggi e persino di insidiare il primato dei Cinquestelle negli indici di gradimento degli italiani. Un importante banco di prova del modo in cui stanno mutando (oppure no) i rapporti di forza fra gli alleati coinciderà con la preparazione della prossima legge di Bilancio. In questa fase le attese misure economiche tardano ancora ad arrivare, forse per l’attento lavoro di concertazione operato a monte dal ministro dell’Economia Giovanni Tria. Il titolare del Mef deve infatti mediare fra le richieste interne per una discontinuità nella politica fiscale del governo, l’ottemperanza ai vincoli europei sui conti pubblici e le tensioni dei mercati alimentate non appena affiorano posizioni euroscettiche nella compagine di governo o si alzano i toni con Bruxelles. Sul punto Tria ha rassicurato l’Eurogruppo circa la linea di continuità con le politiche passate, il fatto che la moneta unica non è in discussione e che nel 2018 gli interventi saranno strutturali e senza costi per rilanciare gli investimenti.
Alberto de Sanctis