La designazione della tedesca Ursula von der Leyen alla Commissione europea e della francese Christine Lagarde alla Banca centrale europea certifica che lo scettro dell’Ue resta ben saldo nelle mani di Germania e Francia. È lecito domandarsi quanto abbiano pesato sulle nomine storiche delle prime due donne alla testa di Commissione ed Eurotower i meccanismi di concertazione rafforzata fra Berlino e Parigi istituiti dal recente Trattato di Aquisgrana. Ed è un fatto che nonostante il lascito del voto del 26 maggio e lo stallo iniziale nel negoziato, il blocco franco-tedesco allargato all’ancella spagnola e ai soci nordici abbia poi saputo trovare e imporre l’accordo al resto del continente. Prova ne siano la designazione dello spagnolo Josep Borrell – fidato sodale del primo ministro Sanchez – alla poltrona di Alto commissario per la Politica di sicurezza e di difesa europea e del premier liberale uscente belga Charles Michel – legato a doppio filo all’inquilino dell’Eliseo – a quella di presidente del Consiglio europeo. Con buona pace dei desiderata federalisti che puntavano su un approccio elettivo per la presidenza di Palazzo Berlaymont o di quanti continuano ad auspicare, invano, la trasformazione dell’Ue in soggetto geopolitico compiuto.
Ursula von der Leyen e Christine Lagarde sono infatti la vittoria dell’establishment continentale, ammantato di nobile europeismo ma dal cuore marcatamente nazionalista. Con implicazioni potenzialmente nefaste per il nostro Paese. La prima, ministro della Difesa nel governo Merkel, si è sempre caratterizzata per posizioni molti rigide in tema di finanza pubblica. Durante la crisi del debito greco, ad esempio, si spinse a proporre di adoperare come garanzia per gli aiuti ad Atene le riserve auree e gli asset strategici ellenici. La seconda, alla direzione operativa del Fmi e fedelissima dell’ex presidente francese Nicholas Sarkozy, ebbe a concettualizzare il commissariamento di governi nazionali finanziariamente indolenti con la Troika, salvo poi ammettere gli effetti disastrosi delle politiche di austerità imposte a mezzo mondo. Dopo aver evitato in extremis la procedura d’infrazione complice il formidabile sostegno concesso dal Colle ai protagonisti diretti delle negoziazioni economiche con Bruxelles, il rischio è che il nostro Paese si trovi a dover scrivere una difficile legge di Bilancio autunnale sotto lo sguardo vigile di una nuova falange di epigoni dell’austerità fiscale. Il governo italiano è arrivato alle contrattazioni per i vertici europei al culmine del faticoso tira e molla sul debito pubblico, un fatto che contribuisce a spiegare il magro bottino raccolto sul fronte degli incarichi. Dopo aver vinto tre delle cinque principali cariche Ue nel corso della precedente Legislatura, l’Italia ottiene “soltanto” David Sassoli alla presidenza del Parlamento – peraltro in ossequio a quel principio caro all’asse franco-tedesco di premiare gli alleati fedeli (come Spagna e Belgio) o i fronti politici meno ostili alle politiche economiche europee incarnate dal fiscal compact (come appunto il Pd). Da segnalare infine che un aspetto che accomuna i tre nomi più importanti usciti per il ruolo di commissario italiano (Giorgetti, anche se non disponibile, Massolo e Siniscalco) è sicuramente il forte rapporto con gli Stati Uniti.
Alberto De Sanctis