Politica

La tensione Pd-M5S. La pazienza del Pd è finita. E Conte sale al Colle

01
Aprile 2022
Di Ettore Maria Colombo

Sembrava essere andato tutto bene. La mediazione era stata trovata, grazie all’opera di interposizione di un novello casco blu, il ministro alla Difesa Lorenzo Guerini. Del resto, Draghi era salito al Colle, l’altro giorno (e, dopo, come vedremo, ci è andato pure Conte…) proprio per rendere edotto il Capo dello Stato che la situazione, sui soldi da destinare alla Difesa, si andava pericolosamente attorcigliando. Poi, appunto, Guerini in formato colomba della pace aveva trovato la mediazione, quadrato il cerchio. L’aumento, concordato in sede Nato, delle spese militari, in incidenza sul Pil, al 2%, slitta dal 2024 al più lontano 2028. Ma la tensione tra Pd e M5S sale alle stelle.

Anche il voto sul dl Ucraina era filato liscio 

Anche l’ok definitivo del Senato, sul dl Ucraina, che arriva dopo quello della Camera, ma condito con la questione di fiducia posta dal governo (giusto per tutelarsi di fronte a possibili defezioni) viene votato in modo blindato, con 214 sì e 35 no. 

Più che altro, a stonare sono le assenze: al voto finale hanno partecipato solo 249 senatori su 321. Ma la misura, per molti esponenti del Pd, è ormai colma e più di qualcosa, nel rapporto con i 5Stelle, ormai si è rotto. Anche perché dal M5s filtra una “pazza idea”: aspettare settembre, incassare la pensione per i parlamentari alla prima legislatura e mettere in crisi il governo per passare all’opposizione. Un gesto irresponsabile – ribattono dal Pd – «che farebbe saltare l’alleanza» oltre a costringere a trovare un nuovo governo, di fine legislatura, perché di certo non si potrebbe andare a votare in sessione di bilancio. 

Il Pd sta con Draghi e attacca duro i 5Stelle

Del resto, nello scontro che si è consumato tra Draghi e Conte, durante il loro drammatico faccia a faccia consumatosi martedì a palazzo Chigi, il Pd ha dimostrato di stare da una parte sola, quella del premier. 

Il primo a essere preoccupato per l’escalation contiana è, ovviamente, Enrico Letta, che aspetta a lungo prima di prendere una posizione netta. «L’Italia lascerebbe sbigottito il mondo se si aprisse ora una crisi di governo», avverte il segretario, dopo un giorno di silenzio ufficiale. I malumori interni non gli lasciavano via d’uscita. Non poteva più restare zitto. Il corpaccione dem rischiava di esplodere di rabbia.

La rivolta dei deputati dem: irresponsabili

Tra il Transatlantico di Montecitorio e la bouvette del Senato la compagine democratica ribolle. «Conte è un trasformista che muta posizione a seconda della convenienza del momento. La presunta corsa al riarmo è solo un pretesto, non c’entra assolutamente nulla col merito della questione», attacca Matteo Orfini. 

A palazzo Madama, il clima è ancora più teso. Il duello con i senatori grillini in commissione Esteri sul dl Ucraina ha lasciato scorie difficili da smaltire. Segna una distanza che è bene rimarcare, anziché colmare, affinché sia chiaro da che parte sta il Pd. Scandisce il veterano Luigi Zanda: «In questo momento non sono in gioco le alleanze politiche, ma il rapporto del M5S con la collocazione dell’Italia all’interno dell’alleanza atlantica e con le ragioni su cui si fonda il patto di governo, che Draghi ha specificato di voler mantenere inalterate». Chiaro il concetto: la scelta di campo del Pd è netta. 

Ma si addensano nuvoloni neri anche sul futuro dei due (eterni) promessi sposi. «Se nel M5s prevalesse una linea alla Di Battista il dialogo con il Pd si esaurirebbe», prevede Andrea Marcucci. Insomma, il famoso campo largo perde pezzi. E ogni giorno diventa più difficile ricostruirlo.

Conte attacca il Pd: «Pretendiamo rispetto». Poi sale al Colle a spiegare la sua posizione

Ma non è finita qui. A spargere sale sulle ferite, ci si mette direttamente Conte che sparge sale sulle ferite, attacca direttamente il Pd, poi sale al Colle. 

L’incontro è stato fissato dopo una telefonata tra il leader del M5S e il capo dello Stato legata al dossier difesa e spese militari, poi la decisione di vedersi. Conte vuole spiegare la posizione del M5s sul punto, oltre a esprimere «preoccupazione perché c’è un intero Paese in sofferenza» (Paese che, è il sottotesto, si preoccupa del caro bollette, non delle spese militari…). La notizia fa subito salire la tensione tra Pd e M5S. Conte, infatti, via diretta Instagram, chiede al Pd rispetto sostenendo che i 5 Stelle non sono la «succursale di un’altra forza politica». 

Terminato il colloquio con Mattarella, Conte convoca il Consiglio nazionale del M5S nella sede romana. Manco fossimo, appunto, alla vigilia di una crisi. Certo, l’ex premier ribadisce agli utenti Instagram (sic) che «non intendiamo uscire dal governo», che vuole «dialogare con buonsenso», che l’alleanza con il Pd «va avanti da tempo», ma – e qui c’è la staffilata – dice «io pretendo rispetto e dignità. Non posso accettare accuse di irresponsabilità. Vogliamo il rispetto da tutte le forze politiche». 

Dal Pd avvertono: «la nostra pazienza è finita» e si riapre il dossier della legge elettorale

E così, la tensione tra Pd e M5S, appena sopita, riesplode nella sua gravità.

Sempre di ieri è la notizia che si terrà l’election day, il 12 giugno, tra primo turno delle comunali (votano quasi mille comuni) e i referendum sulla giustizia, quelli passati al vaglio della Consulta, promossi da Lega e Radicali. Le alleanze nelle città, tra Pd e M5s, stentano a decollare quasi ovunque e si fa fatica a immaginare, oggi, un campo largo che possa unire Pd e M5s alle prossime politiche. 

Intanto, anche nel Movimento 5 stelle cresce la voglia di proporzionale, ma il “refrain” nell’ex fronte rosso-giallo è che la mossa di cambiare il sistema di voto deve avere la sponda di FI e Lega. 

Inoltre, Berlusconi e Salvini non sembrano andare nella direzione di un cambio del sistema di voto, piuttosto stanno accelerando sulla lista unica, fermo restando che entrambi i partiti presenteranno liste con nuovi marchi. Certo, il proporzionale potrebbe togliere le castagne dal fuoco a tutti: ognuno correrebbe sotto le proprie bandiere, senza dover fare accordi di sorta. Ma se la legge elettorale, invece, resta quella attuale, il Rosatellum, per il fronte (ex) giallorosso saranno dolori. Allo stato, immaginare accordi politici tra Pd e M5s per sostenere candidati comuni nei collegi uninominali è fantascienza. Ma senza accordi, quantomeno di desistenza, Pd e M5s perderebbero la totalità dei collegi uninominali maggioritari, che sono il 34% del totale, e sono quelli che assicurano la vittoria. Il centrodestra si troverebbe con elezioni già vinte prima ancora di partecipare.