Politica
La lotta di successione dentro il Pd è iniziata. Ma è già in surplace
Di Ettore Maria Colombo
Una lunga storia. Come il Pd elegge i segretari
S’infittisce, stile soap opera, la lotta dentro il Pd in vista del congresso anticipato (marzo 2023). La vera novità, almeno dal punto di vista formale, è l’annuncio della (ennesima) candidatura: quella dell’ex ministra Paola De Micheli (nasce lettiana, passa con Zingaretti, era tornata più che lettiana), che fa sapere che si candiderà al congresso anticipato del Pd che si terrà a inizio del 2013.
Anche se, dato il – complicato e tortuoso – regolamento interno del Pd che soprassiede, modello nume tutelare, alle primarie democrat, le candidature ‘ufficiali’ non saranno note prima degli inizi di dicembre e le ‘procedure’ che ‘accendono’ la macchina congressuale non potranno partire prima del gennaio del 2023. Tempi non esattamente biblici, ma neppure brevi.
Al punto che, negli interiora del Nazareno, c’è pure chi preconizza diversi, e consistenti, ‘slittamenti’ in avanti della ‘macchina’ congresso e, quindi, dell’indizione e dello svolgimento delle primarie stesse. Una litania, un prendere tempo, che recita così: “prima bisogna dedicarsi a costruire il partito in Parlamento (formazione dei gruppi parlamentari, nomina dei capigruppo, etc.) e poi a ‘ricostruirlo’ nel Paese. Poi, bisogna decidere se il congresso sarà a mozioni o a tesi (ma sarà a mozioni, come è sempre stato, che un congresso ‘a tesi’, cioè su idee programmatiche diverse e ideali non si è mai visto, nella storia, ndr.), infine bisogna aprire l’Assemblea nazionale che accetta le dimissioni del segretario uscente (Letta) e, solo alla fine, fare le primarie”.
Primarie che funzionano secondo la teoria del ‘missile a due stadi’: prima quelle ‘interne’, dove votano solo gli iscritti al partito (di solito, il tesseramento si chiude a dicembre 2022: chi controlla più tessere, in pratica, ha fatto bingo). Poi quelle ‘esterne’, il famoso ‘lavacro’ democratico che piace tanto, specie ai padri fondatori del Pd (e dell’Ulivo: Prodi, Veltroni), in cui votano ‘tutti’, cioè simpatizzanti, militanti, semplici cittadini e, ovviamente, gli iscritti di cui si è detto sopra… Insomma, una ‘storia’ lunga, faticosa, complicata, con tempi che, mese dopo mese, si rarefanno e che possono pure slittare…
Ecco perché molte ‘vecchie volpi’, tra i big dem, dicono: “Calma e gesso con le auto-candidature. Ora sono tante, presto si andranno scremando”.
La prima a scendere in campo è la De Micheli
Per non sapere né leggere né scrivere, però, Paola De Micheli ha deciso di battere tutti sul tempo e conferma, ieri, la sua discesa in campo così: «Ho 49 anni, un curriculum fitto e la voglia di spendermi in qualcosa di importante. Voglio puntare sui militanti, troppo spesso dimenticati, quando non umiliati, e sulla definizione della nostra identità. ‘Chi siamo’, questa deve essere la domanda chiave e dovrà essere un congresso diverso dagli altri. Non può diventare una scelta di figurine o un concorso di bellezza. E neanche possiamo stare a discutere di Conte sì o Conte no, perché un partito non in salute non guarisce con le alleanze. Mi aiuteranno figure che stanno sul territorio, abituate a parlare con la gente».
Letta, che ha per lei un affetto filiale, potrebbe vedere di buon grado la sua candidatura. Altri lettiani pure. Il potente, specie al Sud, Francesco Boccia – legato a doppio filo con il governatore pugliese Michele Emiliano – vuole appoggiarla, anche perché il filo che li lega è assai antico e viene dai tempi – e dai fasti – di ‘Vedrò’ e ‘360’, le due associazioni (ma guai a chiamarle correnti, che i lettiani ci tengono) costruite, tanti anni fa, da Letta, quando era ancora “giovane e forte”.
Piacentina, donna forte e volitiva, che non lesina sull’autocritica (“Bisogna riconoscere gli errori commessi, anche quelli sotto il governo Draghi, che ha varato norme restrittive sui diritti del lavoro, per esempio nella logistica”, cioè la sua), allo stato, è la prima donna che scende in campo.
Gli altri candidati, invece, ‘prendono tempo’
Per tutti gli altri candidati in pectore, invece, la parola d’ordine è diventata, all’improvviso, keep and calm. Alcuni che sembravano essersi già ‘lanciati’, come il sindaco di Pesaro, e capofila dell’associazione dei sindaci di Ali, Matteo Ricci, ora frenano. Sono in corsa solo ‘ufficiosamente’ e non anche ‘ufficialmente’. Ricci, ieri, la metteva giù così: “Io candidato segretario? Non è il momento di fare nomi e cognomi, ma nessuno si può sottrarre a una fase di ricostruzione del Pd. Io non mi sottraggo. Occorre rifondare il Pd. Dargli un’anima. O addirittura andare oltre il Pd”. Certo, in tanti gli stanno chiedendo di correre: “Candidati a segretario” gli dicono molti sindaci, specie di Ali. “Nei prossimi giorni farò alcune iniziative” (ai primi di ottobre Ali organizza, a Roma, un mega-evento molto partecipato, il “Festival delle Città), risponde lui, ma per ora il pesarese frena gli entusiasmi e i bollori dei suoi, scatenatissimi.
‘In sonno’ gli altri due: Bonaccini e la Schlein
Gli altri due nomi che girano, e pure in modo vorticoso, il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, e la neo-eletta in Parlamento, Elly Schlien, ex eurodeputata eletta con il Pd, ma mai iscritta al Pd (stava in Possibile di Civati), fino a ieri vice-presidente proprio di Bonaccini. E, ora, entrambi, tardano parecchio, a palesarsi. Oggi Bonaccini vedrà, per un’iniziativa pubblica teoricamente ‘neutra’, la presentazione di un libro, il ‘re’ delle preferenze, in quel di Milano, dove è assessore, Alessandro Maran, il quale si sente defraudato di un posto nel listino dem, per diretta colpa di Letta e gliel’ha giurata. I due sembrano destinati a intendersi, e subito, Bonaccini e Maran: uno – cioè Maran – porta in dote il Nord, un altro, Bonaccini, il Centro Italia.
Bonaccini va avanti, costruisce alleanze, reti, ma per ora continua a muoversi sottotraccia, cauto. La corrente di Guerini, Base riformista, è pronta ad appoggiarlo, ma non a costo zero: insomma, chiede posti e, soprattutto, garanzie. E, inoltre, Br ha un altro problema, e bello grosso, dentro casa.
Il sindaco di Firenze, Nardella, è sul punto di lanciarsi nella corsa, forse in ticket con Ascani
Si muove sottotraccia pure un nome di peso di Br, il sindaco di Firenze, Dario Nardella, infatti: ieri ha tenuto una riunione, stile brain storming, con alcuni sindaci a lui vicini: Andrea Gnassi, ex sindaco di Rimini, eletto alla Camera solo perché ripescato, per il rotto della cuffia, nei listini dem, e Emiliano Fossi, ex sindaco di Campi Bisenzio (FI) e coordinatore della segreteria Pd toscana, che almeno ha vinto in un collegio uninominale. Gnassi è della corrente “Energie democratiche”, capitanata dalla umbra Anna Ascani, altro nome che sembrava ‘tentata’ da una candidatura e che potrebbe, oggi, fare ticket proprio con Nardella, mentre Fossi appartiene a Dems, la corrente di Andrea Orlando, buona copertura ‘a sinistra’, ma ‘tradirebbe’ la sua corrente di appartenenza (Base riformista) che vuol ‘stare’ su Bonaccini.
Se Nardella – che ieri ha detto “Dobbiamo ripartire da zero. Fare un lavoro serio, anche doloroso, ma necessario” e che ha lanciato il “modello Firenze” definendolo “un’esperienza concrete, più forte nelle periferie che nelle ztl” – scenderà in campo romperà il fronte ‘riformista’.
La carta Schlein e la fifa del ‘cavallo di Troia’
A questo punto, la sinistra interna, sia candidi un suo ‘campione’ (Provenzano) sia che converga sulla Schlein, potrebbe decisamente approfittarne. Del resto, a sinistra, Bonaccini e Ricci vengono bollati come “due ex rottamatori amici di Renzi” e, dunque, come il ‘cavallo di Troia’ del renzismo ergo sono disposti a qualsiasi cosa pur di fermarli. Ma la sinistra – Orlando e Provenzano come pure l’ideologo Bettini, il ‘sinistro’ Boccia, molti altri – dovranno pur decidersi. Se vogliono competere davvero contro il ‘peso massimo’ Bonaccini devono e possono ‘mettere in campo’ solo un nome e quel nome non può che essere la Schlein. La sola che, data la sua vasta popolarità, può ‘battere’ Bonaccini, specie se sarà in campo anche Nardella che, oggettivamente, dividerà il fronte. Senza dire del fatto che già la candidatura di Ricci ‘divide’, invece, il fronte della sinistra, visto che il sindaco di Pesaro proviene dai Ds e che, proprio come la sinistra interna, con Conte e i 6Stelle non vede l’ora di ricostruire l’alleanza e ridare vita al (si pensava defunto) ‘campo largo’. Prospettiva che, invece, sono i riformisti a vedere come l’ombra del Diavolo, lo spirito del Demonio perché, ove vincesse davvero la sinistra interna, e su queste basi di Pd tutto spostato verso i 5Stelle, potrebbero essere proprio loro, ad andarsene…
Dove va questo benedetto Pd? Profilo e identità a rischio, la sola speranza è ‘socialista’ o, meglio, socialdemocratica… parla il massmediologo top, Massimiliano Panarari, e un bravo politologo, Lorenzo Castellani.
Dove va il Pd? Va rifondato? Come? Il Pd ha un problema di identità, dalla nascita, e ‘amalgama’. Viene dalla fusione, ‘a freddo’, di due filiere e due filoni – politici, ideali e ideologici – molto diversi: il Pci-Pds-Ds da un lato, la Dc-PPI-Margherita, dall’altro. Non si sono mai ‘fusi’. E ha pure un problema di ‘alleanze’. Con chi farle? 5S di Conte o Terzo Polo? Campo largo o stretto?
Massimiliano Panarari, professore di Sociologia della comunicazione all’Università Mercatorum di Roma, dice che «la storia della sinistra italiana è fatta di tanta competizione/conflitto tra l’anima riformista e quella radical-massimalista». Ma è un vero “dilemma del prigioniero”, per il Pd: «per essere competitivo in un Paese dove le sue chances di vittoria si palesano solo se il fronte avversario è spaccato avrebbe bisogno di stare al centro di un’alleanza larghissima. Stavolta non è stato possibile e forse non lo sarà in futuro».
Il Pd, per Panarari, «ha bisogno di identificare con elettorato ampio a cui rivolgersi e indirizzare proposte chiare in prima persona, sulla base di un progetto, non del ritorno all’indietro». L’arma vincente «è un partito modernamente laburista, cosa diversa da uno assistenzialista e populista, terreno su cui in tanti sono molto più attrezzati, a dispetto delle oligarchie interne». L’altro aspetto è che «accanto al complicatissimo rinnovamento del gruppo dirigente serve un leader a tutti gli effetti (come negli altri partiti)». Occorre, quindi, «tempo, anche per sviluppare una cultura politica in grado di comprendere il drammatico paesaggio pubblico contemporaneo». In buona sostanza, per Panarari, «la soluzione non è di mantenere in sella certe sempiterne élites interne, rilegittimandole attraverso il ritorno a parole d’ordine anacronistiche e nostalgiche o in linea con lo spirito dei tempi che è e resta populista».
Il professor Lorenzo Castellani, che insegna Storia e Istituzioni Politiche alla Luiss di Roma, collaboratore del Quotidiano nazionale, alla domanda “che partito dovrà essere il Pd post-Letta” risponde: «Bisogna guardare prima agli spazi pieni e vuoti. Lo spazio centrista, europeista, liberale si sta riempiendo. Renzi e Calenda consolidano il consenso ottenuto. Dura, per il Pd, trasformarsi in un partito centrista, di blande venature progressiste, di fatto liberista». Ma, avverte Castellani, «lo spazio della ‘sinistra sociale’, un’offerta politica assistenzialista, attenta a povertà e diseguaglianze, pro-sussidi, molto ambientalista, pacifista in politica estera, Nato scettica ed europeista solo fino ad un certo punto, è ormai occupato con successo da Conte».
Ne consegue, spiega, che «l’opzione progressista di Letta è fallita: garantisce una solida identità, tiene un 20% dei consensi, ma non vince perché la base sociale e culturale è troppo stretta. Europeismo ortodosso, moderazione economica, atlantismo, diritti civili, antifascismo militante, cosmopolitismo non trovano i favori del Paese».
Cosa manca? «La social-democrazia, tradizione che ha sempre stentato in Italia, ma rappresenta, forse, una evoluzione possibile ai conservatori». E, cioè, «un’europeismo non ideologico, Stato interventista nell’economia, piattaforma pro-lavoratori, anche autonomi e precari, politica industriale, realismo sulle politiche migratorie, un tasso di protezionismo dalla globalizzazione, welfare più robusto possono essere la via per una sinistra che, per poter competere, deve tornare a incrociare gli ultimi e la classe media impoverita. Può significare dover pagare qualche perdita di consenso nelle grandi città e nei ceti benestanti, ma può allargare la base di consensi potenziali».