Politica
La guerra civile in Etiopia e gli interessi dell’Italia
Di Alberto de Sanctis
È passato un anno dall’inizio della guerra civile in Etiopia, il conflitto che minaccia la stabilità dell’intero Corno d’Africa e che mina alle fondamenta l’ascesa di Addis Abeba – indicata fino a poco tempo fa come l’astro nascente del continente africano, complice l’elezione a primo ministro nel 2018 del celebrato Abiy Ahmed.
Dodici mesi fa le Forze armate federali etiopi, con il supporto delle Forze di difesa eritree e della polizia amara (proveniente dall’omonima regione centro-settentrionale dell’Etiopia) iniziavano l’occupazione del Tigrè, un’altra regione etiope incastonata poco più a nord fra i confini eritreo e sudanese. All’origine del conflitto c’era e c’è la contrapposizione tra i due schieramenti che si contendono il futuro costituzionale del paese. Da una parte il fronte pan-etiopico guidato da Ahmed, che mira a riaccentrare l’autorità dello Stato; dall’altra il composito fronte entico-federalista, favorevole al mantenimento dell’autonomia da parte delle entità federate. Protagonista del secondo schieramento è appunto la dirigenza tigrina, dominatrice incontrastata della politica etiope per un trentennio circa fino all’ascesa dell’attuale primo ministro nel 2018. Da quel momento la mancata adesione alla coalizione pan-etiopica di Ahmed ha sostanzialmente privato i tigrini di ogni leva del potere a livello nazionale, riducendo la loro sfera d’influenza alla sola regione del Tigrè. Dopodiché il rifiuto di riconoscere l’autorità di Addis Abeba da parte delle autorità di Macallè (il capoluogo tigrino), specialmente in ambito giuridico ed elettorale, ha finito per innescare la catena di eventi culminata nel novembre 2020 con l’occupazione militare della regione da parte dell’esercito etiope e delle forze alleate.
Dodici mesi più tardi però le sorti del conflitto sono completamente rovesciate e il Tigrè è di fatto una regione indipendente. La resistenza tigrina favorita dalle condizioni orografiche del territorio, l’incapacità etiope di garantire gli approvvigionamenti alle truppe d’occupazione e il sostegno sudanese ed egiziano alla causa di Macallè hanno favorito la controffensiva verso sud del Fronte popolare di liberazione del Tigrè, che negli ultimi mesi ha invaso le regioni Afar e Amara portandosi a meno di 400 km da Addis Abeba.
Nel frattempo colava a picco anche la fiducia internazionale verso l’esecutivo Ahmed. Giunto al potere appena tre anni fa sull’onda del sostegno politico e finanziario di Stati Uniti e Unione Europea, in questa fase il primo ministro e premio Nobel per la pace nel 2019 deve fare i conti con l’ostracismo occidentale e le sanzioni per gli ostacoli agli aiuti umanitari nel Tigrè. Così, pur di puntellare la sua difficile posizione sul campo di battaglia, Ahmed è costretto a stipulare accordi militari con Russia e Turchia – una scelta che ha gettato un’ombra sul futuro della sua permanenza al vertice del governo etiope. La prospettiva di un inserimento di Mosca e Ankara nei giochi di potere del Corno d’Africa dopo la loro recente penetrazione lungo la sponda sud del Mediterraneo e financo nel Sahel potrebbe infatti convincere Washington dell’utilità di un cambio di regime ad Addis Abeba (sanzionato per l’appunto da un esito del conflitto civile favorevole ai tigrini), pur di scongiurare la penetrazione di potenze esterne e rivali anche in questo quadrante del Continente Nero. A loro volta dette dinamiche si legano alla rivalità accesa fra Etiopia, Egitto e Sudan per il controllo delle risorse nilotiche, da cui dipendono in buona sostanza futuro e sviluppo dei paesi oltre che la possibilità di ergersi a egemone regionale a scapito degli altri.
Ma l’esito della guerra civile in Etiopia e i susseguenti equilibri geopolitici nel Corno d’Africa riguardano indirettamente anche l’Italia. Nel 2018 il Belpaese era balzato al primo posto della classifica dei paesi Ue per investimenti nell’area e al terzo posto complessivo a livello globale dietro a Cina ed Emirati Arabi Uniti. Qui vantiamo tuttora rapporti economici privilegiati soprattutto con Addis Abeba e una presenza rilevante tramite gruppi come Webuild (l’ex Salini Impregilo) ed Enel, con investimenti corposi che vanno dalle grandi opere alle rinnovabili e all’agroalimentare. L’interesse italiano riguarda anche il vicino Kenya, un’altra economia molto importante dell’Africa occidentale, grazie alla presenza del colosso energetico Eni, di Cnh Industrial e all’esportazione di macchinari industriali, prodotti chimici, elettrici e alimentari. Nella piccola Gibuti, infine, abbiamo scelto di costruire la nostra prima base militare all’estero dai tempi della seconda guerra mondiale. Costruita nel 2013 e operativa dal 2014, l’installazione ospita quasi 100 unità di personale e fornisce assistenza logistica alle unità navali impegnate in mare nelle missioni antipirateria, come pure alle truppe dislocate a terra con compiti di assistenza e stabilizzazione, soprattutto nella vicina Somalia.
L’ex colonia francese affacciata sul Golfo di Aden vanta del resto una posizione geostrategica impareggiabile per monitorare i flussi marittimi che solcano le acque dell’Oceano Indiano, prima di risalire il Mar Rosso ed entrare nel Mar Mediterraneo via Canale di Suez. Qui è dove si concentrano gli interessi delle maggiori potenze mondiali: a Gibuti sono di stanza, fra gli altri, americani, francesi, cinesi e giapponesi. Per l’Italia questo piccolo ma importante hub rappresenta dunque un bastione irrinunciabile in un’area di tradizionale interesse geopolitico del nostro paese, oggi fortemente minacciata dall’instabilità che origina dal conflitto civile etiopico.