Politica
“L’onorevole dimezzato”. La proposta di modifica dei regolamenti parlamentari del Pd è un rimedio peggiore del male. Ecco perché.
Di Ettore Maria Colombo
“I cambi di casacca in Parlamento” sono la dimostrazione che “viviamo in una democrazia malata”. Con queste parole – e, dunque, con un piglio da grillismo antemarcia e, ormai, fuori tempo massimo, il segretario del Pd, Enrico Letta, ha presentato alla stampa, lunedì scorso, la proposta di riforma dei Regolamenti parlamentari promossa dai gruppi parlamentari del Pd che l’hanno studiata, confezionata e, in conferenza stampa, illustrata, ma a grandi linee, con gli interventi delle capogruppo del Pd di Senato e Camera, Simona Malpezzi e Debora Serracchiani, del presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato, Dario Parrini, del responsabile Riforme della segreteria dem, Andrea Giorgis, della professoressa Carla Bassu e di Emanuele Fiano, capogruppo dem nella Giunta per il Regolamento di Montecitorio. Silente, ma presente, la testa d’uovo del Pd in tema di riforme, il deputato Stefano Ceccanti.
“Oggi – spiega Letta – c’è una grande occasione per riformare i regolamenti parlamentari, resa obbligatoria dalla riduzione del numero di parlamentari (si tratta della riforma parlamentare che riduce da 945 a 600 i parlamentari e che entrerà in vigore dalla nuova legislatura e che dovrà, per forza di cose, rimodulare almeno il numero e la consistenza dei gruppi parlamentari, ndr.)”. “I regolamenti – dice Letta – devono cambiare per forza e noi proponiamo alle altre forze politiche alcuni importanti novità in vari ambiti. Sono tutte novità che servono a scongiurare la chiusura del Parlamento nei confronti dei cittadini, aumentare le forme di partecipazione, per rendere più efficiente il lavoro parlamentare”, aggiunge Letta. Un rimedio, a nostro modesto avviso, peggiore del male, ma solo dopo proveremo a dire perché.
Il deprecabile fenomeno del “trasformismo” o “transfughismo” parlamentare
Partiamo invece dai dati di fatto, inoppugnabili. Secondo i calcoli del sempre benemerito sito di monitoraggio degli atti parlamentari, Openpolis, aggiornati al 31 maggio scorso – cioè dopo la nascita di Coraggio Italia del governatore ligure Toti e del sindaco di Venezia, Brugnaro – i parlamentari che hanno abbandonato il proprio gruppo di appartenenza (quello in cui erano stati eletti) in questa legislatura XII, la sono stati 259, con buone possibilità, dunque, di raggiungere il record dei 569 della scorsa legislatura, la XI, che a oggi detiene il record dei cd “cambi di casacca”.
La “malattia” di cui ha parlato Letta nella conferenza stampa di presentazione della proposta starebbe nel progressivo distacco tra i risultati delle elezioni (e la presentazione delle liste in cui i parlamentari vengono eletti) e quello che poi accade in Parlamento, dove sorgono sempre nuovi gruppi politici non usciti dalle urne.
“Trasformismo” e “transfughismo” – un neologismo coniugato proprio da Letta – ha definito questo fenomeno il segretario del Pd, che ha anche legato – ma il paragone non c’entra nulla – a questo fenomeno un altro fenomeno, squisitamente politico, cioè il fatto che “in sette anni abbiamo avuto sette governi e, negli ultimi tre anni, tre governi con maggioranze diverse”.
In ogni caso, con questa proposta di riforma dei Regolamenti, Letta sottolinea anche di voler mettere in atto quanto affermato il 14 marzo all’Assemblea nazionale dei dem nel discorso di insediamento come segretario, quando attaccò proprio il “trasformismo” parlamentare. Reclama, insomma, un principio di coerenza (il che è vero).
Il principio del “senza vincolo di mandato”
Ora, sul punto conviene intendersi. Il moloch è l’articolo 67 della Costituzione, l’ormai arcinoto principio del parlamentare eletto “senza vincolo di mandato”. Un Moloch che viene dritto dritto dalla storia del parlamentarismo occidentale e, in particolare, di quello della democrazia più antica del mondo, quella della Gran Bretagna. Fino a metà del’700, infatti, i parlamentari ce l’avevano eccome, il ‘vincolo di mandato’. Rispondevano, cioè, a chi li aveva eletti: in genere, si trattava di nobili, borghesi, comitati di affari e interessi costituiti, anche perché il diritto di voto era limitato (veniva attribuito, di norma, per censo e istruzione). Ora, tutte le democrazie occidentali, dalla Rivoluzione francese in poi, hanno aderito al sacro principio del ‘senza vincolo di mandato’. In buona sostanza, il parlamentare deve essere, e sentirsi, ‘libero’ di esprimere opinioni, voti e posizioni politiche a prescindere da chi lo elegge. Altrimenti è ‘limitato’, nella coscienza e nell’agire, e diventa, cioè, ‘vincolato’ a qualcuno.
Il principio, peraltro, andava poco a genio prima ai partiti socialisti e, poi, soprattutto, ai partiti comunisti che mettevano sempre ‘prima’ gli interessi, indefettibili, del loro Partito e/o organizzazione rivoluzionaria rispetto ai diritti del parlamentare, suscettibile alle mollezze ‘borghesi’ del ‘parlamentarismo democratico’, e i cui destini volevano che ‘dipendessero’, sempre e di fatto, dalle decisioni prese dal Partito. Non a caso, l’assenza di vincolo di mandato, nelle ‘democrazie’ dell’Est – quelle dell’Urss e dei suoi paesi satelliti, le cd. ‘democrazie popolari’ – non c’era come non figura nella Repubblica popolare cinese e simili (Vietnam, Corea, Cuba).
Persino durante i lavori dell’Assemblea costituente vi fu chi, come il Pci, voleva mettere in discussione il principio, trovando qualche sponda nella Dc, ma il pensiero liberale s’impose.
Negli ultimi anni chi ha cercato di intaccare il principio dell’assenza del vincolo di mandato è stato proprio il Movimento 5Stelle che, nel suo programma originario, ne chiedeva l’abolizione in nome del rapporto ‘fiduciario’ tra ‘portavoce’ eletti dal popolo e popolo-militanti elettori. Seguirono pernacchie, ma la proposta è agli atti.
Ora, il Pd – con la sua proposta – viola il sacro principio? Ovviamente, il Pd risponde di ‘no’. La nostra risposta è, invece, ‘un po’ no, un po’ si’. Ma meglio illustrarla per bene prima, la proposta.
La proposta di riforma dei Regolamenti del Pd
La proposta del Pd, in realtà, è molto ampia e tocca molti e diversi aspetti della vita parlamentare e attuazione della Costituzione, alcuni dei quali richiedono modifiche di rango costituzionale (quindi con procedura aggravata e doppia lettura conforme da parte delle Camere), tranne nella parte della modifica dei Regolamenti che, essendo una interna corporis delle Camere, vengono approvate di concerto tra i gruppi.
In sintesi, la proposta sui Regolamenti vuole: limitare i cambi di casacca e il fenomeno del transfughismo; valorizzare le iniziative legislative popolari e dei Consigli regionali; stabilire tempi certi per i voti del Parlamento; vietare maxi-emendamenti eterogenei; semplificare e razionalizzare numerosi atti e strumenti del lavoro parlamentare. Una proposta assai ampia firmata e presentata, per ora, solo alla Camera, dagli onn. Giorgis, Serracchiani, Fiano, Ceccanti.
Nello specifico, eccone i punti fondamentali.
Per limitare cambi di casacca e transfughismo, il Pd prevede che i deputati debbano aderire al Gruppo corrispondente al partito o movimento politico sotto il cui simbolo sono stati eletti.
Durante la legislatura, i deputati non possono aderire ad un altro gruppo o al gruppo Misto. Se lasciano il proprio gruppo, diventano “deputati non iscritti” a nessuna componente, come già è, oggi, dentro il Parlamento europeo.
L’unica eccezione prevista è nei casi di scissioni. In quel caso, possono nascere nuovi Gruppi parlamentari, ma solo se composti da deputati provenienti da un unico Gruppo parlamentare (in un numero minimo), che rappresentano una forza organizzata nel Paese (e con simbolo depositato alle precedenti elezioni politiche, come è già ora).
I deputati che abbandonano il proprio Gruppo parlamentare decadono dalle eventuali cariche acquisite in quanto rappresentanti di quel Gruppo.
Esclusa anche l’iscrizione a un altro gruppo: “Per quanto riguarda il parlamentare che abbandona il gruppo di appartenenza non è possibile, per la nostra proposta, che si iscriva a un altro gruppo”, spiega Fiano e con lui gli altri.
In pratica, il limite per fare gruppo scende da 20 deputati a 15 alla Camera e da 10 senatori a sette al Senato ma solo se ci si collega a un simbolo elettorale presentato alle elezioni, come oggi già è, in base al regolamento del Senato.
Le mie personali critiche alla proposta del Pd
Il punto è che, con la proposta del Pd, ‘fatti’ politici importanti e di rilievo politico, oltre che parlamentare, non sarebbero mai potuti accadere. Per fare solo alcuni esempi: la nascita del Pdci – scissione del Prc – di Cossutta e Diliberto nel 1998 che diede al governo Prodi I prima (poi caduto) la possibilità di giocarsela in Parlamento, sui voti di fiducia, e che poi permise la nascita dei governi D’Alema e Amato (I e II). La nascita di Fli di Fini che, nel 2010, si distaccò dalla Pdl e che causò, non riuscendoci in prima battuta, ma in seconda sì, la caduta del IV governo Berlusconi. La nascita di Ncd di Alfano che, staccandosi da FI, permise la nascita del governo Letta (eh sì, sic…) nel 2013. La nascita di Ala di Denis Verdini che, nel 2015, permise al governo Renzi di continuare la sua azione di governo (legge sulle unioni civili compresa), ma anche la nascita di Mdp (poi Art. Uno) che ruppe col Pd di Renzi per legittime ragioni tutte politiche e che, in base a queste norme, non sarebbe nata.
Infine, la nascita di gruppi di ‘ribelli’ ex 5Stelle che stanno formando, in questa legislatura, gruppi autonomi – quelli di Alternativa c’è – in dissenso dal voto di fiducia del M5s al governo Draghi.
Per non dire della nascita di Italia Viva di Renzi, vitale e decisiva prima nella nascita del Conte II, poi nella sua fine e, oggi, nella nascita del governo Draghi. Infine, ultimo ‘nato’, il gruppo parlamentare di Coraggio Italia (24 deputati), legato al governatore Toti e al sindaco Brugnaro che sta nel centrodestra ma appoggia il governo.
Tranne il caso di Iv – collegato, in forza del Regolamento del Senato – al Psi e che solo così è potuto nascere (alla Camera non ha avuto eguale problema: bastavano, appunto, i 20 deputati), si tratta di forze politiche – alcune scomparse presto o perché non si sono presentate più elezioni, o perché hanno preso risultati non ragguardevoli – che hanno però determinato lo svolgimento e la formazione di governi ‘politici’ importanti, a prescindere dal loro ‘colore’, e dunque di ‘fatti’ politici rilevanti che hanno cambiato la storia del Paese. Certo, il gruppo Misto è cresciuto in modo abnorme (alla Camera conta 65 deputati e risulta essere il quinto gruppo, in termini numerici, mentre, al Senato, oggi, è il quarto gruppo per composizione, con 46 senatori, superiore persino ai 38 del gruppo del Pd), ma se si possono sicuramente trovare i correttivi giusti, ed equilibrati, per ‘penalizzare’ il Misto (togliere il diritto ai finanziamenti, al tempo di parola in Aula, al diritto di tribuna, alle corsie preferenziali per presentare proposte di legge e atti ispettivi), abolirlo del tutto è una penalizzazione eccessiva.
Un deputato, o un senatore, non iscritto ad ‘alcuna componente’ (oggi prerogativa dei soli senatori a vita) è un animula vagula blandula che non avrebbe, dalla sua, alcun tipo di strumento per farsi valere e per far sentire la sua voce.
Infine, al di là del fatto che il collegamento con simboli e liste presentate alle elezioni, come prevede il nuovo Regolamento del Senato, approvato nel 2018, è facilmente aggirabile (prova ne è la nascita, appunto, di Iv, collegata al Psi di Nencini post quem, o la prossima nascita di gruppi di ex M5s che si ‘legheranno’ all’Idv di Messina e Di Pietro o a Rivoluzione civile di Ingroia), resta il punto politico. Perché impedire che, in Parlamento, possano nascere ‘fatti’ nuovi?
Come ci si comporterà, se la proposta passasse, nella prossima legislatura, di fronte a una o più scissioni dentro i 5Stelle, per dire, ove una o più di queste non rispondesse ai requisiti richiesti? Perché limitare, in questo modo, la democrazia parlamentare e il suo libero e franco svolgimento che è fatto ‘anche’ della nascita di nuovi gruppi che, poi, possono trasformarsi o meno in partiti? Non è meglio lasciar decidere e giudicare, del loro destino, e della loro fortuna, agli elettori? Dubbi e domande aperte, ma che forse meritano, da parte del Pd, qualche ragionevole risposta.