Politica

Sebastiano Caputo da Kabul: «Gli USA in Afghanistan hanno scelto di perdere». L’intervista.

08
Settembre 2021
Di Marco Cossu

Kabul è saldamente in mano talebana. Sui palazzi della città sventolano le bandiere bianche con la shahādah e i taleban, gli studenti, hanno nominato il nuovo governo del paese. Alla guida nel nuovo Afghanistan alcuni volti noti dell’establishment pre-invasione americana, qualcuno inserito nella lista nera dell’Onu, altri vicini ad Al Qaeda. Intanto prosegue il processo di accreditamento internazionale, tra manifestazioni disperse con i colpi di fucile e l’avanzata in territori come il Panjshir che hanno deciso di resistere all’egemonia talebana. Sebastiano Caputo, giornalista, è riuscito a raggiungere la capitale afghana, raccontandoci questi giorni che hanno il sapore di un ritorno al passato.

È facile entrare in Afghanistan oggi? Come sei arrivato a Kabul?
Per evidenti ragioni è quasi impossibile entrare al momento in Afghanistan, anche se i primissimi colleghi che sono riusciti a farcela hanno aperto dei varchi agli altri colleghi tramite i Paesi limitrofi. Non a caso siamo davvero pochi giornalisti italiani a essere qui, in questa posizione “privilegiata” per capire, studiare, guardare cosa sta accadendo. L’aeroporto internazionale di Kabul ha da poco riaperto i voli nazionali ma non quelli internazionali, mentre le ambasciate della Repubblica dell’Afghanistan nel mondo che rilasciavano i visti stanno perdendo progressivamente le loro funzioni istituzionali. Di conseguenza i più fortunati sono riusciti ad ottenerne uno in tempo, ma anche col visto significa imbarcarsi in un viaggio interminabile. Per quanto mi riguarda sono atterrato in Uzbekistan, poi da Tashkent fino a Kabul, in macchina, ho impiegato più di 20 ore.


Che aria si respira in città? Aria di pace o di guerra? E per i giornalisti come te che aria tira? Ci si può muovere liberamente e raccontare?
Ero già stato in Afghanistan tre anni fa. Quando sono arrivato questa volta c’era una calma apparente, traffico nelle strade, negozi aperti, bambini a scuola, ma soprattutto una quantità importante di pattugliamenti talebani in pick-up nelle strade e nelle piazze. Quando si stava avvicinando l’annuncio del governo provvisorio, connesso alla parziale riconquista del Panjshir, qualcosa è cambiato. Improvvisamente la tensione è aumentata, e, di fronte alla caduta ufficiale del Panjshir, è insorta una parte importante della società civile a Kabul. Dalla resistenza armata si è passati a quella pacifica. C’è stata una manifestazione di uomini e donne, erano qualche centinaio, contro l’ingerenza del Pakistan negli affari interni afghani, e a sostegno dei seguaci di Massoud. A un certo punto è arrivata una colonna di pick-up talebani e hanno cominciato a sparare in aria per disperdere la folla. Alcuni proiettili hanno persino colpito le finestre di un albergo dove alloggiano persone. Fortunatamente le camere colpite erano vuote. Come giornalisti riusciamo a muoverci, con le solite difficoltà in queste aree di crisi, di guerra o di frontiera. Servono lettere di autorizzazione per superare i checkpoint, soprattutto fuori dalla capitale, e le interviste agli uomini istituzionali, se si è occidentali, sono difficili da ottenere. 

Il giornalista e reporter Sebastiano Caputo


Com’è la situazione acqua, cibo, energia elettrica? Insomma come stanno vivendo gli Afghani in queste settimane?
Gli Afghani sono sopravvissuti a guerre pluridecennali e riusciranno a sopravvivere anche adesso, in questa fase di “regime change”. Anche se il problema principale in questo momento sembra essere la riattivazione del sistema bancario, e la progressiva riapertura di tutte le frontiere con i Paesi limitrofi per il trasporto merci. Senza questi due elementi, il Paese è letteralmente isolato e in grave crisi. 

I Talebani hanno annunciato il nuovo governo. Hasan, sulla lista nera dell’Onu sarà il nuovo primo ministro ad interim; il ministro dell’Interno Haqqani è ricercato dall’Fbi per terrorismo; il figlio del Mullah Omar sarà ministro della difesa. Altri nomi, come la guida suprema, sono protagonisti del vecchio establishment talebano.
Sì, ero alla conferenza stampa al Ministero della Cultura e dell’Informazione quando è stato annunciato quello che viene definito “governo provvisorio”. Per riformare l’Emirato ci vorrà un po’ più di tempo del previsto. La verità è che i Talebani oltre a non controllare militarmente tutto il Paese, stanno cercando in tutti i modi personalità che possano ricoprire ruoli tecnici per far funzionare l’intera macchina amministrativa. Questo governo duro e puro – come dimostrano i profili dei vari ministri – è in realtà un governo di compromesso talebano che difatti non prende in considerazione i gruppi etnici non pashtun (in totale ci sono solo due tagiki e un uzbeco tra le 33 nomine effettuate e nessun hazara) e il Mullah Baradar, colui che ha firmato gli accordi di Doha con gli Stati Uniti, al momento si è messo in secondo piano. Ci sono divisioni interne alla famiglia allargata dei Talebani, in particolare tra la rete Haqqani – sono gli Haqqani a essere arrivati per primi a Kabul – e la vecchia guardia di Kandahar. E poi ci sono due visioni di governo che si sovrappongono all’interno delle due fazioni citate: coloro che auspicano un pragmatismo e coloro che insistono sull’impegno ideologico. Se l’Emirato vuole sopravvivere deve trovare un compromesso esterno, non solo interno, e dunque essere riconosciuto dalla comunità internazionale. Per ora il leader dei Talebani Haibatullah Akhundzada ha prevaricato su Serajuddin Haqqani grazie probabilmente alla decisione di servizi segreti pachistani Isi di schierarsi dalla sua parte.

I Talebani hanno conquistato la capitale quasi senza colpo ferire e ora sui palazzi di Kabul sventola la bandiera bianca dell’Emirato, simbolo della resistenza anti-NATO. L’avanzata talebana è figlia della paura o si regge sul consenso?
Il destino dell’Afghanistan era stato già scritto a Doha negli accordi di pace firmati il 29 febbraio del 2020 tra gli Stati Uniti e la delegazione dei Talebani. In cambio del ritiro delle truppe straniere, Zalmay Khalilzad, delegato dell’amministrazione Trump, ha chiesto al Mullah Baradar l’impegno di questi ultimi a rinunciare a ogni legame con il jihadismo transnazionale. In sintesi, già un anno e mezzo fa la Casa Bianca ha voltato le spalle al governo di Kabul – che ha sempre chiesto di sedersi al tavolo delle trattative, e aperto il terreno al loro riconoscimento internazionale. Quella è la causa profonda che racconta le immagini, alcune strazianti, che abbiamo visto in mondovisione ad agosto. Altrimenti non si spiegherebbe come i Talebani siano riusciti in così poco tempo a conquistare provincia dopo provincia, città dopo città, senza quasi sparare un colpo. I famosi 300mila soldati afghani addestrati in questi 20 anni si sono sentiti abbandonati, e di fronte all’avanzata dei Talebani, hanno preferito disertare, altri avevano già firmato accordi sottobanco per passare dall’altra parte, così come il governo di Kabul non appena questi hanno accerchiato la capitale.

Nel Panshir, ultima roccaforte, la rivolta è sedata nel sangue. Ci sono segnali di opposizione anche in altre aree del paese?
Esiste ad oggi – e come spiegavo prima – “un Taliban Consensus” che però non è eterno. Le variabili internazionali sono infinite e i player da mettere d’accordo sono tanti, troppi. Il governo provvisorio è ampiamente sostenuto da Qatar, Turchia e Pakistan perché tutti e tre i Paesi hanno influito pesantemente sulle nomine. La Russia e l’Iran invece sembrano scontente dell’attuale situazione. Ma entrambi i Paesi hanno ancora degli strumenti di pressione qualora non dovessero ricevere garanzie. I primi, egemoni in Tajikistan, la principale retrovia strategica dei combattenti del Panshir, possono riattivare la guerriglia; i secondi invece starebbero già trasferendo la Brigata Fatimyoun, la milizia di afghani sciiti e di etnia hazara composta da circa 15mila, dalla Siria al confine tra Iran e Afghanistan.

L’Afghanistan rischia di diventare uno spazio sicuro per il terrorismo islamista internazionale?
L’Afghanistan rischia di diventare una terra fertile per il terrorismo internazionale se l’Afghanistan scivolerà nella guerra civile. È nella guerra civile che prosperano movimenti come l’Isis, il caso siriano ne è l’esempio più eclatante. Se i talebani non riusciranno a costruire un governo di riconciliazione e di inclusione etnica questo scenario diventerebbe possibile. Non dimentichiamoci che le cellule dello Stato Islamico del Khorasan sono già sul posto.

È una guerra persa o è la storia che si ripete?
Entrambe. Gli Stati Uniti in Afghanistan hanno scelto di perdere. E, consapevoli della perdita di credibilità internazionale di Joe Biden – soprattutto nei confronti degli alleati europei che hanno partecipato alla missione Nato – hanno scelto un rischio calcolato. Il ritorno al “disordine talebano” può diventare una pistola puntata contro la Cina (confini dello Xinjiang musulmano), l’Iran (rivalità ideologica e religiosa) e la Russia (retaggio storico), dunque un fattore di instabilità della regione.

Una canzone adatta per descrivere quello che accade.
Viviamo giorni surreali, direi “Punk Islam” di Giovanni Lindo Ferretti.

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