Politica
Il “barrato” dell’Ansa: il Colle smentisce, con durezza, i presunti ‘sentimenti’ di Mattarella
Di Ettore Maria Colombo
++ Colle, privi fondamento articoli su “sentimenti” Quirinale ++ Nota diffusa dall’ufficio stampa su confronto elettorale. Si chiama, in ‘giornalese’, ‘barrato’ dell’Ansa. Si usa quando la principale agenzia di stampa italiana dà una notizia che ritiene molto importante, ma senza aggiungere ad essa alcun tipo di commento. D’altronde, proprio non è il caso di fare chiose né commenti alcuni glosse. A parlare, infatti, è l’ufficio stampa del Quirinale, retto da Giovanni Grasso, portavoce del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. E se è pur vero che, il Capo dello Stato, ha anche altri, diversi, collaboratori, sulla comunicazione (Gianfranco Astorri, Claudio Sardo, Marco Conti sono i tre principali, poi ce ne sono altri) ‘se’ Grasso – voce ufficiale e unica, sul Colle, quando ‘il gioco si fa duro e i duri iniziano a giocare’, cioè da mesi – emette una ‘nota’ vuol dire, in buona sostanza, che sta parlando Mattarella stesso, seppur per interposta persona, per chiudere la polemica sui sentimenti del Quirinale.
E cosa dice, la ‘nota’ del Colle, che esce in una quieta domenica di fine agosto, mentre gli italiani rientrano – pigri e dolenti – da ferie ormai finite e, soprattutto, mentre la campagna elettorale impazza e va avanti a colpi bassi, brutti, cattivi, tutti tirati sotto la cintola, come se si trattasse di una gara di wrestling, neppure di pugilato (il quale, si sa, invece le sue ‘regole’ le ha e tante)?
Ecco, la nota del Colle dice – secca, asciutta – che sono privi fondamento articoli su (presunti) “sentimenti” del Quirinale. +++ Leggiamola, dunque. “Nota diffusa dall’ufficio stampa sul confronto elettorale. Sono del tutto privi di fondamento articoli che presumono di interpretare o addirittura di dar notizia di reazioni o ‘sentimenti’ del Quirinale su quanto espresso nel confronto elettorale. Questi articoli riflettono inevitabilmente soltanto le opinioni dell’estensore. È quanto si afferma in una nota dell’Ufficio Stampa della Presidenza della Repubblica”. (ANSA, quella citata…).
L’articolo ‘incriminato’, quello del Corsera… Cosa ha scritto Marzio Breda
Ora, però, come in ogni buon libro giallo, bisogna fare non uno, ma due passi indietro e cercare di spiegare ‘il contesto’ che ha dato vita e luogo alla (durissima) nota del Colle. Parliamo, qui, cioè dall’articolo incriminato che ha fatto andare di traverso il caffè al Capo dello Stato.
Trattasi di un articolo sui presunti sentimenti del Quirinale pubblicato domenica 28 agosto sul Corriere della Sera, a firma del decano e più noto tra i ‘quirinalisti’ (una ‘razza’ di giornalisti molto speciale, un club assai ristretto, al confronto Eton e Oxford gli fanno un baffo, un circolo Pickwick, dove tutti conoscono tutti), Marzio Breda. Teoricamente in pensione, Breda (veneto, persona raffinata e di ottime letture, autore di molti libri sul Quirinale e i Presidenti), essendo privo di ‘eredi’, a via Solferino, continua a fare il mestiere che fa da decenni, il quirinalista. Autorevoli come lui, pochissimi altri, come, ad esempio, Ugo Magri (La Stampa) e quasi basta. Un articolo, però, il suo, quello di ieri, che – appunto – è stato smentito con una durezza inusitata, per il Quirinale come per tutti gli altri. Per non mancare di rispetto al collega Breda, meglio riportare, però, l’articolo per intero, peraltro riportato in un ‘taglio basso’ sul Corsera.
La frase incriminata è quella dei sentimenti, o sentiment, cioè ‘lo stupore’, che il Quirinale proverebbe verso la Meloni e le sue ‘ambizioni’ a voler non solo far la premier, ma pure a ricevere ‘per forza’ l’incarico. E qui, però, va fatto un altro ‘passo indietro’…
Mattarella, in teoria, sarebbe ‘in vacanza’… In ogni caso, se parla la Politica, il Colle ‘tace’.
Il Capo dello Stato ha passato una (breve) vacanza ad Alghero (Sardegna), funestata dai mille problemi che il nostro Paese si trova ad affrontare e da una campagna elettorale ‘orribile’ in cui il “senso di comunità e di identità nazionale che ci deve tutti stringere per affrontare le tante sfide che abbiamo davanti” (guerra in Ucraina, Covid 19 e sua recrudescenza, crisi economica, crisi sociale, prezzi del gas e delle bollette, etc.), come usa dire, inascoltato, il Presidente, da mesi (anzi, da anni). Poi è volato a Palermo, sua città natale e di residenza (per capirsi, il 25 settembre Mattarella voterà nel suo seggio di quella città), e si accinge, il I settembre, a tornare ‘a Palazzo’.
Dopo, dal 6 al 9 settembre, c’è una visita di Stato, in Albania e Macedonia, poi più nulla. ‘Agenda’ presidenziale, cioè, ‘vuota’. Mattarella è chiuso in un riserbo che, da un lato, è ‘proverbiale’ – cioè di ogni presidente della Repubblica che si rispetti, al netto di Cossiga e Scalfaro, sempre tale, quando è in corso una campagna elettorale – e, dall’altro, è ‘ancestrale’. L’uomo Mattarella, si sa, è fatto così, tende a parlare il meno possibile e, di norma, lo stretto indispensabile. Sempre. Figurarsi a campagna elettorale in corso. E così brutta, volgare, scollacciata e cattiva, poi. ‘Normale’ che smentisca chi gli attribuisce ‘stupore’, ‘sentimenti’ del Quirinale anti-Meloni o chicchessia.
I rapporti tra Meloni e Colle sono pessimi? No.
Anzi, c’è persino chi sostiene che proprio Meloni, oltre a ‘consultarsi’, ormai sempre più spesso, pare, con l’attuale premier, ancora in carica, seppure solo “per il disbrigo degli affari correnti”, Mario Draghi (“Presidente, come va l’Italia?”, “Male, grazie”) abbia già ‘sottoposto’, agli ‘uffici’ del Quirinale, una serie di nomi. Ministri papabili (Tremonti, Nordio, Pera, etc.) che sono stati tutti candidati nelle liste di FdI. Ma che, dal Colle, abbiano già detto dei ‘no’ (a tutti e tre loro, peraltro, così pare) e invece espresso dei ‘sì’ per figure ‘tecniche’ che potrebbero aiutare l’eventuale governo a guida Meloni ad affrontare la ‘tempesta’ che si prospetta sull’Italia, sul piano economico-sociale. Fabio Panetta, oggi membro del board della Bce, sarebbe, per dire, un ottimo ministro al Mef, così traspare, ma è un refolo appena, dall’alto Colle (e la Meloni ne sarebbe, peraltro, ben felice), Cingolani e Colao pure, etc.
Insomma, la verità, il ‘non detto’, è che la Meloni non avrebbe affatto un ‘pessimo’ rapporto con l’attuale inquilino del Colle, pur essendo stata FdI il solo partito che si è opposto alla sua rielezione. Tanto che, in un’intervista comparsa, oggi lunedì, sul Corriere della Sera (sempre lui…), il vero ‘spin doctor’ di Giorgia Meloni, ex parlamentare e oggi presidente di Aiad, Guido Crosetto, dice: “L’altro giorno (quando la Meloni ha parlato di un incarico di governo che ‘doveva’ andare a lei, ndr.) si è fatta una forzatura. Si sono estratti 10 secondi da un discorso di un’ora e mezza, in cui Giorgia dice che se il centrodestra vincerà le elezioni, il Quirinale ne prenderà atto. Una cosa banale. Detta con rispetto verso Mattarella, che sa bene cosa deve fare e lo farà, specie se dalle urne uscirà un risultato chiaro. Ma qualcuno ha voluto estrapolare e polemizzare”. Ora, al netto delle parole – ovviamente ‘interessate’ – del ‘consigliere’ numero uno della leader di FdI, resta il punto dei sentimenti del Quirinale. Ma siamo sicuri sicuri che i ‘rapporti’ tra la Meloni e Mattarella siano davvero ‘pessimi’? Ecco, qui ci permettiamo di non esserlo affatto…
Non che il centrodestra ‘aiuti’ Mattarella. Meloni, Salvini, Berlusconi: io sarò il premier!
Non che, però, va pur detto, il centrodestra ‘aiuti’ Mattarella a restar fuori dall’infuocata campagna elettorale. La Meloni ha detto quello che si sa e che è stato ampiamente riportato (in sintesi: se arrivo prima io, l’incarico spetta a me).
Ieri, per dire, ancora duello a distanza, tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni, entrambi in Puglia e oggi in Sicilia, come se si ‘marcassero’ a vicenda in un’ossessiva, per entrambi, ricerca di consensi.
Se il primo insiste sulle bollette, la seconda torna a spingere sul nodo migranti, rilanciando la soluzione del blocco navale. Sullo sfondo, però, continua la sfida per la leadership (dentro il centrodestra) e soprattutto per la premiership, ma dentro il ‘futuro’ governo che dovrà arrivare.
“Siccome sono un’inguaribile ottimista – attacca Matteo Salvini da Ceglie, la stessa kermesse organizzata dal sito ‘Affari-italiani.it’ che, il giorno prima, ospitava Meloni – penso che la Lega possa diventare il primo partito. Poi sono felice di concorrere per il mestiere più bello del mondo, presidente del Consiglio del mio Paese”.
Come se si sentisse ‘tagliato fuori’ dalla gara – sentimento, per lui inaccettabile – anche il Cavaliere, tra “pillole” sui social e l’annuncio dello sbarco su “Tik Tok”, sempre più rinvigorito, rilancia con forza anche la sua, di leadership. In collegamento telefonico, sempre con l’iniziativa di Ceglie, ribadisce che lui resta l’unico leader che abbia “lavorato in vita sua”. Dopo aver elencato i molteplici successi nel mondo dell’editoria, dello sport, delle tv e ovviamente in politica, Berlusconi si lascia andare usando parole poco gentili nei confronti di tutti gli altri suoi competitor, e non solo quelli della ‘sinistra’: “Chi ha governato il Paese per quasi dieci anni, garantendo la sicurezza, l’innovazione, ilbenessere e soprattutto la libertà a tutti i cittadini? Mi dispiace doverlo dire io, ma quel signore si chiama Silvio Berlusconi. Tutti gli altri sono dei professionisti della parola, professionisti della politica che vivono con lo stipendio della politica e che nella loro vita non hanno mai lavorato”. Dove ‘tutti’ vuol dire ‘tutti’, compresi, cioè, Salvini e la Meloni, la cui ‘professione’, fuori dalla Politica, non esiste al netto di un ‘patentino’ da giornalista che, oggettivamente, in Italia, non si nega a nessuno…
Toti urla contro “l’eventuale colpo di Stato” se l’incarico non va alla Meloni. Il Colle freme…
Ieri, infine, ci si è messo pure il governatore ligure Giovanni Toti. Nato ‘moderato’ e, in vecchiaia, diventato sempre più ‘estremista’, forse perché i seggi blindati, per il suo partitino, l’ennesimo nato dalla sua fervida mente, “L’Italia al Centro”, si presenta nella lista ‘Noi Moderati’ (sic), glieli ha, gentilmente, regalati proprio FdI, ha rilasciato alle agenzie parole ‘tonanti’ e, va detto, pure assai scollacciate: “Il terreno dello scontro interno al centrodestra sarà la Meloni? Nelle coalizioni ci sono sensibilità diverse, la legge elettorale premia le coalizioni e rende irrilevanti chi si mette da una parte. Dopodiché se Meloni prendesse più voti e non fosse presidente del consiglio saremmo al colpo di Stato. Dipendesse da me, il presidente del consiglio lo farebbe uno di Noi moderati o Draghi – scherza (ri-sic) Toti – Lo decideranno invece gli italiani”. E meno male, viene da dire.
Ecco, alla parola ‘colpo di Stato’ – la stessa usata da Luigi Di Maio, solo che sotto forma di richiesta di impeachment (ritirato in una notte). Allora in versione descamisada e proterva, quella che, nel 2018, chiese, un giorno (ma durò solo un giorno, la richiesta…) fatidico l’impeachment dell’attuale Presidente, come non si stanca di ricordargli Matteo Renzi. Non il ‘buon Gigino’ che è diventato oggi, dopo esser passato, armi e bagagli, dal M5s al Pd, con il suo micro-partito (Impegno civico, ‘fusione’ a freddo di Insieme per il futuro-Centro democratico di Tabacci, percentuale stimata: 1,2%) con il centrosinistra che gli ha regalato un seggio (a Napoli-Afragola, neppure tanto sicuro). Ecco, quando si dice così, al Colle, di solito, parte un fremito, un sussulto, di indignazione e rabbia, se non veri scoppi d’ira.
La Costituzione, le sue regole e la sua prassi…
Il Capo dello Stato – rieletto, a gennaio, per un secondo mandato, cioè altri sette anni, da un Parlamento ‘inerte’ e ‘incapace’ di scegliere un suo degno successore, un semi-unicum, dopo la prima rielezione di Giorgio Napolitano, 2013 – ‘tace’, dunque. E tacerà fino al 25 settembre, giorno del voto, ma pure fino a molto ‘dopo’.
Cioè fin quando, espletate tutte le formalità di rito che vedranno l’insediamento delle nuove Camere (13 ottobre) con la proclamazione degli eletti, la formazione dei gruppi parlamentari, la votazione dei due presidenti delle due Camere, dei vicepresidenti, questori e uffici di Presidenza.
Calendario alla mano, non prima di metà ottobre. E, forse, anche assai oltre, cioè fin quando non si apriranno le consultazioni di rito per la nascita – in volgare, è la ‘formazione’ – del nuovo governo. Ci vuole il tempo che ci vuole’, ecco, e nessuno può ‘mettere fretta’ al Colle.
Poi, ovviamente, valutate tutte le indicazioni (il voto degli italiani, se da questo un orientamento ‘chiaro’ ne viene fuori, la costituzione dei gruppi parlamentari, i neo-presidenti delle Camere, etc.), il Capo dello Stato si ritira ‘in camera di consiglio’ (casa sua, il palazzo del Torrino, dove ‘abita’ da quando è diventato Presidente, 2015) e, coadiuvato dai suoi consiglieri (Ugo Zampetti, segretario generale del Colle, sopra ogni altro, ma ce ne sono molti altri: Guerrini, Garofali, Cabras), decide a ‘chi’ e ‘perché’ l’incarico di governo.
‘Incarico’ – il quale può essere ‘pieno’, un ‘pre-incarico’ (Bersani 2013) o ‘esplorativo’ (di solito si affida a uno dei presidenti delle Camere) – che, Costituzione alla mano (fin quando, cioè, non cambia, con il presidenzialismo/semi che sia, ci teniamo questa, e nessuno ci può fare nulla…), è solo e soltanto il Capo dello Stato ad ‘attribuire’, dato che la nostra è stata concepita come una Repubblica ‘parlamentare’ e non ‘presidenziale’, come è nei sogni del centrodestra, che mira, appunto, a introdurre l’elezione diretta del Capo dello Stato. Il che vuol dire che ogni presidente del Consiglio incaricato, una volta ‘sciolta la riserva’, si presenta davanti alle Camere per ottenere il necessario voto di fiducia (curiosità: basta la maggioranza semplice: 201 voti alla Camera, 101 al Senato, rispetto ai precedenti, e finora più famosi, 316 e 161…). Se lo ottiene, bene, si forma, entra nei suoi poteri (pieni, quelli che, di solito, agogna Salvini…) e inizia a governare. Se non la ottiene, si ‘riammonta’ tutto. Altro giro, cioè, altra corsa.
Ora, se è pur vero che siamo nell’ambito della ‘prassi’ (la Costituzione, di tutte queste fattispecie non fa cenno), trattasi di una prassi settantennale e, dunque, assai ‘dura’, a morire. Morale, conviene ‘rispettarla’, sempre e comunque. Perché, come dice con malignità chi conosce bene l’attuale inquilino del Colle, pur senza minimamente apprezzarlo, “al Vecchio è meglio che nun lo fate incavolà. Sennò, essendo pure palermitano, di quelli tosti, diventa cattivo”. Un ‘consiglio’, per quanto assai poco ortodosso, che chiunque vincerà le elezioni e ‘bramerà’ l’incarico di governo (Meloni, Salvini, o altri) è sempre meglio tenere sempre a mente e memoria.