Politica

Governatori del Sud su Bonaccini, big su Schlein. Il rischio di un “doppio esito” del congresso dem

06
Dicembre 2022
Di Ettore Maria Colombo

Bonaccini-Schlein, giornalisti e polemisti si ‘interrogano’ sul Pd
Il notista politico de La Stampa, Fabio Martini, la legge come una vecchia, antica, diatriba, quella tra Walter Veltroni e Massimo D’Alema, due modelli archetipici: “Da una parte il partito come motore del mondo e con una aspirazione anticapitalistica; dall’altra il partito a vocazione maggioritaria, capace di tosare e addolcire la pecora capitalistica ma senza abbatterla”. Invece, Francesco Cundari, brillante polemista de l’Inkiesta e il Foglio, sostiene che il convitato di pietra è Romano Prodi e la sua ricerca di un ‘partito-coalizione’ e non di un ‘partito-partito’ motiva così: “Il Pd fu il frutto di un lungo e complicato lavoro, pieno di contraddizioni e passi indietro, ma non fu mai il partito unico del centrosinistra, non fu mai il partito-coalizione all’americana, bensì l’unione dei riformisti per creare l’equivalente italiano della Spd tedesca, del Labour britannico, del Psoe spagnolo. E non sarebbe mai nato se D’Alema nei Ds da un lato e Franco Marini nei Popolari dall’altro non avessero spinto in quella direzione, trovando su questo un accordo con Prodi (che avrebbe preferito l’altra strada). La tensione originaria, al di là dei personalismi, era tra queste due diverse idee di cosa dovesse essere il Pd: un partito riformista, con un’identità precisa o un partito-coalizione la cui identità, nei fatti, non era altro che la somma delle sue parti, tradotta in una sostanziale delega in bianco al leader, incoronato dalle primarie e candidato (di fatto) a Palazzo Chigi”. Altri hanno discettato a lungo, per giorni, settimane, su identità, valori, missione del Pd, come si evince da un – barboso, noioso – dibattitto sulle ‘idee’ del ‘nuovo Pd’ pubblicato, in un numero infinito di puntate, su Repubblica.

Ma il Pd, in teoria, non conta quasi più nulla…
Si continua a parlare di Pd, dunque. Una vera ossessione, specie sui giornali, amici e non, fino a chiederne lo ‘scioglimento’, la ‘trasformazione’, il ‘cambio di nome’. Come se il Pd non fosse un partito residuale, relegato all’opposizione e che non riesce a trovare un bandolo della matassa del lavoro di tre opposizioni tutte e tre divise tra loro. Con il Terzo Polo che ‘dialoga’ con il governo, da opposizione ‘responsabile’, massimizzando i consensi degli elettori moderati. E con i 5Stelle che ‘dialogano’ con la Cgil e con le piazze, massimizzando la protesta e la rabbia sociale. Stretto, dunque, il Pd, in una tenaglia micidiale e incapace di sfondare sia ‘a destra’ che ‘a sinistra’.

Un partito sprofondato, almeno nei sondaggi, al 15,6%: meno della metà di FdI (30,8%), superato di una buona lunghezza dai 5Stelle (16,6%), secondo Swg del 5 dicembre. Come se i suoi ex ministri fossero ancora ministri e invece sono solo ‘ex’, semplici parlamentari, tranne quella vecchia volpe di Lorenzo Guerini, fresco di nomina a presidente del cruciale Copasir dopo un lungo, estenuante, braccio di ferro dentro e fuori il Pd. Come se il Pd controllasse ancora mezz’Italia, a livello amministrativo. Governa, è vero, in molti comuni (anche tra i maggiori: Torino, Milano, Bologna, Roma, Napoli, Bari), ma le regioni le ha perse, nel corso degli anni, quasi tutte. Resistono ancora Emilia-Romagna, con Stefano Bonaccini, appunto. Toscana (Giani), che si è già massicciamente schierata su Bonaccini, Campania (De Luca) e Puglia (Emiliano). Ma qui la notizia, su cui torneremo, è che i due potenti governatori delle regioni del Sud (Emiliano di sicuro, De Luca più recalcitrante) stanno per venire a patti con Bonaccini. Pur diffidenti verso le sue idee hard sull’autonomia ‘differenziata’ regionale, sarebbero pronti ad appoggiarlo. Emiliano, addirittura, parteciperà al lancio ufficiale del tour per l’Italia di Bonaccini, che partirà sabato 10 febbraio da Bari, al fianco del sindaco della città, Antonio Decaro, e di una ‘rete’ di amministratori locali già apertamente schierati con il governatore emiliano. Su De Luca “ci stiamo ancora lavorando” dicono i Bonaccini boys, consci che il governatore campano è un osso duro e che, a differenza di Emiliano (che punta al ‘change’ nel 2024: lui candidato all’Europarlamento, Decaro candidato in Regione), ha poco da chiedere e molto da offrire.

Poi ci sono il Lazio (dove c’era Zingaretti alla guida) e Lombardia (dove il Pd è all’opposizione) che vanno al voto, il 12 febbraio, ma pure qui le contraddizioni sono pronte a esplodere. Con il Lazio che vede l’alleanza tra Pd e Az-Iv (tagliati fuori i 5Stelle) e la Lombardia dove il Pd va da solo: senza Terzo Polo, che candida Moratti in funzione anti-destra, e senza M5s. Due regioni ad alto rischio sconfitta incorporata. E con il prossimo segretario che, chiunque sia, dato che verrà eletto dalle primarie aperte il 19 febbraio, dovrà realisticamente gestire, e farsi incoronare, dopo due sconfitte rotonde. Non un buon viatico.

Il peso delle correnti interne e le famose regole
Poi, problema nel problema, c’è il gioco delle correnti – storica croce e delizia della vita interna dem, antiche correnti di pensiero, aree culturali, ridotte a puri grumi di apparato nazionale e locale – che si vanno posizionando su questo o quel candidato, più o meno stabilmente. Ovviamente, ‘fanno schifo’ a tutti i candidati in campo. Per Bonaccini chi dice di essere “un bonacciniano” bisogna rispondergli che “è un coglione”. Per Schlein “il nostro movimento è un onda, gli ‘schleiniani’ non esistono”. Peccato che le correnti pesino eccome, nel dibattito interno. Per una banale serie di motivi. Uno, ci sono sempre state. Due, esistono per ragion di Statuto. Pochi sanno che, per paradosso, il Pd non elegge un segretario ma un candidato segretario che guida una mozione congressuale composta da un numero di nomi che compongono l’Assemblea nazionale (massimo organo rappresentativo dem). I quali, a loro volta, eleggono il segretario (ma lo possono pure sostituire, con mozione di sfiducia) in seno all’Assemblea costituente medesima. Morale, è una sorta di elezione di secondo grado, come per i ‘Grandi elettori’ che eleggono, formalmente, il presidente degli Usa, nonostante il voto popolare, ma che potrebbero cambiare idea (anche se, a memoria, non è mai successo).

Senza un tot di firme raccolte, i candidati non si possono neppure presentare, alla gara delle primarie. Il voto tra gli iscritti, che si terrà il 9 febbraio, da questo punto di vista, è esiziale: ‘screma’ le candidature che arrivano a spareggio. Prima, nello statuto originario, passavano solo i primi tre, ma dalla riforma statutaria di epoca Zingaretti, passano solo i primi due che si contendono il voto degli elettori e simpatizzanti nelle ‘primarie aperte’ (quelle del 19 febbraio).

Novità nella novità di questo ultimo congresso, ci si potrà iscrivere al Pd fino all’ultimo giorno in cui verranno presentate le candidature (27 gennaio) e si potranno iscrivere anche altri partiti (Articolo 1) mentre, fino a ieri, il tesseramento si chiudeva il 31 dicembre dell’anno prima in cui si tenevano le primarie e chi c’era c’era. La Schlein, che ancora deve prender la tessera, gareggia così, grazie a una deroga alla deroga, molto discussa. Tornando alle correnti, guarda caso, i candidati che non godono dell’appoggio di correnti organizzate (gli outisder Paola De Micheli e Matteo Ricci) saranno, inesorabilmente, esclusi dalle primarie aperte e potranno, tutt’al più, dire, tra il voto degli iscritti e quello tra gli elettori, su chi vorranno far convergere i voti che avranno.

I posizionamenti dei big e delle aree interne sui due principali candidati: Schlein e Bonaccini
Le correnti si sono, informalmente, già schierate. Area dem, tra molti scetticismi, sulla Schlein, con il suo capofila, Dario Franceschini, che vuol “cambiare tutto” affinché “tutto resti com’è”, si è schierata per prima. La sinistra interna al Pd solo dopo molti mal di pancia. Gli ‘zingarettiani’ – che più che una corrente di pensiero sono una rete di potere e organizzazione, specie nel Lazio – sono della partita dall’inizio, come Franceschini.

Andrea Orlando, capofila di Dems, corrente tosta e molto organizzata, sta per fare il grande passo, nonostante il suo nume tutelare, Goffredo Bettini, si riconosca di più nella piattaforma di ‘sinistra’ di Ricci. Peppe Provenzano il ‘passo’ verso la Schlein lo ha già fatto ma da ‘autonomo’. Gianni Cuperlo, intellettuale di suo, ci sta pensando (Cuperlo è uno che pensa molto), ma arriverà. Brando Benifei, europarlamentare, che ha raccolto molte energie con i suoi ‘Occupy Pd’, è già arrivato alla meta. Anna Ascani, con le sue giovani ‘Energie dem’, ci sta arrivando. E molti lettiani pure, ma Francesco Boccia nutre dubbi. Infine, oltre agli appoggi esterni (il mondo di Arci e associazioni simili, la Cgil, la comunità Lgbtq+ e affini), ci sarebbe – nel non detto – la simpatia di Enrico Letta (formalmente non si schiera in quanto ‘garante’ del processo costituente) e di Romano Prodi (i primi ‘Occupy Pd’ contro i ‘101’ che l’affossarono la Schlein li gestì lei), il quale, però, ogni qual volta lo si tira in ballo, assicura che lui non si schiererà mai al congresso.

Su Bonaccini sta, seppur in modo silenzioso – quasi a non volerlo offendere, lui, che rifiuta le stimmate del renziano (oggi una nomea terribile, nel Pd, peggio del Diavolo che s’aggira in chiesa) – Base riformista, l’area di Lorenzo Guerini e Luca Lotti (che di Renzi erano braccio destro e sinistro), con la sua rete di parlamentari e sindaci, i Giovani turchi di Matteo Orfini (ex dalemiani, oggi riformisti doc, che però devono ancora scegliere, formalmente), la ex area di Graziano Delrio, ex cattolici democratici e/o padri nobili (Castagnetti, Parisi, etc.) dell’Ulivo che fu. Infine,ecco i liberal di discendenza veltroniana (Morando, Tonini, Ceccanti) che oggi si uniscono a riformisti extra Pd (Bentivogli, neo-deputato) e che lanceranno un manifesto di stile ‘laburista’.

Poi c’è anche una solida rete di donne democrat (Prestipino, Fedeli, Di Salvo, Morani, Moretti) che hanno lanciato un poderoso appello per ‘fare presto’ il congresso, l’hanno spuntata, e che oggi stanno incontrando tutti i candidati alla segreteria ma le cui simpatie per Bonaccini sono ormai note.


La discesa in campo dei governatori del Sud
E soprattutto c’è una fitta rete di amministratori locali che vanno dai sindaci di Bergamo (Gori) e Bari (Decaro) a quelli di Torino (Lorusso) e Firenze (Nardella, recentissimo il ‘patto’ stretto tra i due, dopo la mancata candidatura del primo che di Bonaccini sarà il coordinatore di mozione) fino a quello di Milano (Sala) e molte altre città. E, poi, appunto, stanno per ‘scendere in campo’ i governatori. Eugenio Giani (Toscana) c’è già e con lui lavora il presidente del consiglio regionale Antonio Mazzeo che porta in dota tre quarti di regione Toscana a Bonaccini, che ha già l’Emilia. In procinto di arrivare ci sono Michele Emiliano che renderà plastica la sua adesione alla mozione Bonaccini quando questi inizierà il suo tour, da Bari, sabato prossimo, portando in dote la Puglia. E, appunto, si lavora anche su Vincenzo De Luca che porterebbe in dote i voti di tutta la Campania tranne Napoli, regno di Gaetano Manfredi, e – paradossalmente – di Bologna, regno di Matteo Lepore, che invece appoggeranno la Schlein. Due talloni d’Achille, e non piccoli, per Bonaccini. Il governatore emiliano, dunque, con l’arco tosco-emiliano e quello campano-pugliese dalla sua, e con l’eccezione del Lazio – regno di Zingaretti – potrebbe prevalere, a questo punto, nel voto tra gli iscritti mentre, a spanne, la Schlein potrebbe spuntarla nel più largo giro, quello tra gli elettori.

Il che, peraltro, sarebbe un problema non piccolo. Finora, infatti, in tutte le elezioni per le primarie, il voto tra gli elettori è sempre risultato come una ‘fotocopia’, in grande e amplificata, del voto tra gli iscritti. Questa volta potrebbe non essere così con Bonaccini vincente nei circoli e Schlein tra i ‘non’ iscritti, ma semplici elettori e simpatizzanti.

Solo che il segretario del Pd viene ‘consacrato’ (e, poi, ‘unto’ in seno all’Assemblea nazionale) dal voto tra gli elettori. Due segretari, cioè, è impossibile averli come non è dato aver due papi. Ma la ‘fantasia’ del Pd potrebbe, stavolta, stupirci ed evitarci, alla fine di tutto, l’ennesima scissione.

Articoli Correlati

Trump dazi
di Giampiero Gramaglia | 21 Dicembre 2024

Usa 2024: +46, shutdown sventato, Trump mette titoli in un trust

di Alessandro Caruso | 21 Dicembre 2024

Manovra e Consiglio Ue. Il 2024 fa sperare nella pace

Giorgia Meloni
di Redazione | 20 Dicembre 2024

Letterina a Giorgia