Politica

Giustizia, è l’ora di passare dalla logomachia alla scrittura dei testi di riforma 

23
Gennaio 2023
Di Daniele Capezzone

Sono trent’anni (contabilizzando solo la cosiddetta Seconda Repubblica) che discutiamo di giustizia. E ormai – comunque ciascuno la pensi – le posizioni sono abbastanza squadernate sia in Parlamento che nella società italiana. 

C’è una componente (minoritaria ma consistente sia in Parlamento che nel paese, e fortissima nei media) che, senza girarci troppo intorno, difende a prescindere il “partito dei pm” e auspica esiti apertamente giustizialisti, pur invocando obiettivi desiderabili come il contrasto al crimine, ma spesso piegandoli verso una sistematica negazione delle garanzie costituzionali delle persone indagate.

C’è poi un’altra componente (forte nell’arco parlamentare ma ultraminoritaria nel paese) che si ricorda del garantismo solo quando è vittima di un torto (o quando si tratta, sia a sinistra che a destra, di difendere gli amici). Al netto di queste circostanze, però, e al netto di una buona retorica garantista, da queste componenti sono rarissimamente venute (il che è un modo garbato per intendere: mai) riforme garantiste nell’interesse di tutti i cittadini. 

E c’è infine una terza componente (che non sapremmo quantificare nelle Camere ma a noi appare nettamente maggioritaria nel paese) che la riforma della giustizia la vuole per davvero, e la vuole per tutti. E trova surreale il cortocircuito politico e mediatico che, la scorsa settimana, ha cercato di trasformare un oggettivo successo (l’arresto di Matteo Messina Denaro) nel pretesto per attaccare la linea riformatrice del ministro Carlo Nordio. 

Da un lato, il ministro è probabilmente responsabile, forse per imperizia nella comunicazione, di qualche dichiarazione iniziale poco accorta. Dall’altro, però, un oliatissimo meccanismo mediatico/giudiziario ha tentato di cogliere la palla al balzo per impedire qualunque cambiamento in materia di intercettazioni e giustizia.

Un centrodestra a volte intimidito e a volte non forte di convinzioni liberali saldissime è apparso preso di sorpresa dalla polemica. Di fatto, prima di un intervento di ieri di Giorgia Meloni, non ci sono state molte voci capaci di distinguere e riaffermare con forza sufficiente punti diversi tra loro ma assolutamente conciliabili:

-si può dire sì all’uso delle intercettazioni contro i reati di mafia e terrorismo; 

-si può contemporaneamente essere favorevoli a un giro di vite rispetto all’uso di trojan, captatori e intercettazioni per altri reati; 

-e si può ancora – e di molto – migliorare la normativa risalente ai tempi del guardasigilli Andrea Orlando (rivelatasi non efficace) volta a impedire la pubblicazione indiscriminata delle intercettazioni. In particolare, è noto a tutti che, infarcendo le ordinanze di custodia cautelare (spesso centinaia di pagine) di una valanga di intercettazioni, il gioco della diffusione è semplice come bere un bicchier d’acqua. 

E allora? Se si vuole dar voce a questa terza Italia riformatrice (a nostro avviso maggioritaria), è giunta l’ora di passare dalla guerra delle parole, da un’estenuante logomachia, alla scrittura e all’esame parlamentare dei testi di riforma. Vale per le cose che possono essere fatte con legge ordinaria, e vale a maggior ragione per le riforme più profonde (separazione delle carriere in primis) che richiedono una modifica costituzionale (e quindi ben quattro passaggi tra Camera e Senato). Il governo e la maggioranza, a nostro avviso, farebbero bene a depositare presto in Parlamento le loro proposte di riforma: a quel punto, il dibattito non sarebbe più vago (cioè scollegato da un testo scritto) né indefinito nei tempi, ma si potrebbe finalmente passare in modo rapido, democratico e ordinato al momento della decisione. Non è più il caso di esitare o di posticipare questo momento. 

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