Il vertice straordinario sull’Afghanistan di martedì 12 ottobre, voluto e organizzato dall’Italia, certifica ciò che sapevamo già da tempo.
Il multilateralismo non esiste e il formato internazionale del G20 vanta il peso specifico di un ente morale, dunque del tutto incapace di incidere sulla complessità delle partite che agitano il nostro pianeta. Prova ne sia il fatto che sul futuro di Kabul la cosiddetta comunità internazionale (leggi: coalizioni variabili invariabilmente guidate o supervisionate dagli Stati Uniti) non sia stata in grado di esprimere alcuna posizione condivisa che vada oltre alle formule di rito. O il fatto che dalle tre ore di videoconferenza sia uscita la decisione di affidare a un’organizzazione tragicamente impotente come le Nazioni Unite la regia delle iniziative di aiuto per gli afghani. Musica per le orecchie dei taliban, oggi disperatamente a corto di risorse e smaniosi di poter mettere le mani sui fondi occidentali promessi agli afghani (1,2 miliardi di euro dall’Unione Europea e trecento milioni di dollari dagli Stati Uniti). Con buona pace delle loro annunciate clausole di condizionalità.
In realtà, fin qui, nulla di sorprendente. Da sempre le grandi potenze agiscono sulla base del proprio calcolo interessato e mai per altruismo. È un concetto semplice e al tempo stesso decisivo, per quanto molto poco compreso nel nostro paese. Perciò questi grandi appuntamenti internazionali valgono nella misura in cui riescono a offrire ai leader convenuti un momento di dialogo a margine, lontano dalle luci dei riflettori, per concludere decisioni riservate o scambiarsi un qualche tipo di promessa. Esattamente quanto non era possibile fare al vertice di Roma, visto il suo formato a distanza. Inoltre, complice l’assenza di due attori di peso come Cina e Russia – assieme all’Iran, i paesi più in apprensione per le conseguenze regionali del ritiro americano – il risultato non poteva essere molto diverso. Sulla riuscita del G20 di martedì pesava anche la prospettiva di un’altra riunione sull’Afghanistan che si terrà a Mosca fra una settimana, cui parteciperanno russi, cinesi, persiani, pakistani e una delegazione taliban. Vale a dire i paesi più esposti davanti alla crisi afghana e dunque quelli che oggi sono i più intenzionati a spendersi per contenerla.
Del resto, quando un anno e mezzo fa gli Stati Uniti decisero di abbandonare l’Afghanistan e di consegnarlo scientificamente agli studenti pashtun, lo fecero perché ai loro occhi il paese asiatico era diventato sostanzialmente inutile. Certo il danno di reputazione fu enorme, ma il buon nome non basta a fare o a disfare una potenza. Figurarsi la superpotenza. Kabul non era mai stata strategica e negli ultimi tempi aveva perso anche la relativa importanza tattica di cui aveva beneficiato nella competizione tra Stati Uniti e Cina. Destinata in un domani a decidersi nei mari d’Asia, non sulle alture dell’Hindu Kush.
Dal punto di vista italiano, il summit non è stato un fiasco completo. L’Italia può infatti rivendicare di aver centrato due obiettivi. Da una parte ha raggiunto un certo grado di consenso fra i partecipanti sulla necessità di scongiurare un esodo migratorio fuori controllo. Dall’altra è tornata al centro della scena dei grandi consessi diplomatici internazionali, come non le capitava da tempo. Risultati affatto scontati viste le premesse della vigilia, ascrivibili in larga parte al merito del presidente del Consiglio Mario Draghi. Che mettendo da parte gli annunci a effetto si è posto degli obiettivi tutto sommato alla portata del formato del vertice (attivarsi per evitare una crisi migratoria il cui sbocco naturale sarebbe proprio la penisola europea), offrendo un’altra occasione di visibilità al rinnovato attivismo italiano in politica estera. Meglio ancora se potendo agire in collaborazione con gli alleati e i partner più stretti del nostro paese.