In principio fu Quinto Tullio Cicerone, fratello del ben più celebre Marco, ma soprattutto suo spin doctor fin dalla candidatura dell’Arpinate a console. “Commentatorium petitionis”, nella sua originale versione latina, è un agile vademecum per supportare un candidato alla vita politica, con un punto fondamentale per i candidati: “far credere”. Un po’ la base di una parte del pensiero di Nicolò Machiavelli che ne Il Principe scriveva “Un principe non deve realmente possedere tutte le qualità, ma deve far credere di averle”. E qui entra in gioco la campagna elettorale, entrano in gioco le tecniche di marketing, entrano in gioco sentimenti universalmente apprezzati ma non per forza posseduti da chi li ostenta. Non sfugge a questa regola la campagna elettorale per le Europee che va terminando. Una campagna non particolarmente brillante, orfana del duello Meloni-Schlein che avrebbe potuto ravvivarla, ma con qualche spunto di interesse. Il primo lo aveva (involontariamente) preconizzato Totò: vota Antonio, vota Antonio, vota Antonio. Solo il nome, basta il nome. Tranne che nel simbolo, dove compare il nome associato al cognome.
Così Giorgia (Meloni) ha furbescamente giocato sulla sua “popolanità” puntando tutto sul nome di battesimo, forte già di un convegno diventato tormentone techno (“Io sono Giorgia, sono una donna, sono cristiana), di un libro autobiografico, “Io sono Giorgia” e di un libro intervista di Alessandro Sallusti, “La versione di Giorgia”. Nel mezzo gli appunti di Giorgia, Telemeloni , la presa in giro de La7 e l’ormai famoso “sono la stronza della Meloni” riferito al presidente della Campania Vincenzo De Luca. Insomma, se c’è stato un candidato che ha fatto agenda setting è stata lei. Catalizzando anche tutta la campagna di Fratelli d’Italia.
Sponda Lega ha colpito la scelta grafica, probabilmente guidata da Giuseppe Inchingolo, di una propaganda che ricalca la cosiddetta “pubblicità comparativa”. Salvini ha deciso che il paragone vincente è quello tra l’Italia e l’Europa: del resto, lo stesso slogan della campagna è “meno Europa, più Italia”. Così, per spiegare che per la Lega solo gli italiani sono per la “famiglia tradizionale”, via libera ai manifesti in cui, per descrivere il raffronto tra l’Ue e il nostro Paese, si mette da una parte una donna con barba al nono mese di gravidanza e dall’altra una famiglia tradizionale sorridente. E ancora, l’improbabile eliminazione dei tappi di plastica che non si staccano dalle bottigliette e fanno arricciare il naso diventa motivo per votare la Lega, a presidio dell’italianità. Il simbolo è quello solito, con l’icona di Alberto da Giussano e la scritta Salvini Premier. D’accordo il nome, ma perché pure il titolo visto che premier non è? Al massimo potevano mettere vice premier. Ma nella Lega hanno fatto parlare le intemerate del Generale Vannacci che, oltre ad uscite sopra le righe (“i neri hanno un odore diverso, forse per l’alimentazione”), ha invitato a votare apponendo una “decima” sul simbolo della Lega, mimando la X con due dita incrociate. Decima, X, come la X Mas, corpo militare della seconda guerra mondiale molto popolare tra i fascisti. Così come hanno fatto polemica i video del candidato uscente Angelo Ciocca, così, con le sue quattro giovani ragazze intente a ballare e cantare. «Made in Italy da tutelare e i mutui da abbassare. La Turchia non deve entrare»: questi solo alcuni punti fondamentali del suo programma.
Più pacata, come da copione, la campagna di Forza Italia. “Una forza rassicurante al centro dell’Europa”, lo slogan scelto da Antonio Tajani, mutuato da quanto ideato da Jacques Séguéla per François Mitterand oltre 40 anni fa. Una scelta sottolineata anche dai manifesti con l’immagine di Tajani insieme a Berlusconi, con polemiche annesse per l’utilizzo dell’immagine del defunto fondatore di Forza Italia, assurto sempre più a icona contemporanea. Anche nel simbolo, visto che Forza Italia è l’unico partito di governo che non ha il nome del leader, Tajani, ma quello di Berlusconi Presidente. Colori blu e giallo in stile Partito Popolare Europeo, FI non avuto sbavature nella sua campagna, puntando a prendere chi potrebbe sentirsi poco rassicurato dalla destra dello schieramento di governo. Al centro, appunto.
Il Partito Democratico, col simbolo semplice, pulito, senza scritte accessorie, né il nome del leader, era partito col botto, con l’immagine del generale Roberto Vannacci con il viso oscurato dalla scritta “ignoralo!”. L’idea dell’agenzia Lievito ha scatenato molte polemiche, anche per l’uso fatto dallo stesso Vannacci che si è presentato sui social con tanto di t-shirt con su l’immagine della campagna pubblicata dal partito di Elly Schlein. Il Pd che fa la comunicazione al generale: il mondo all’incontrario, come direbbe lui.
Consenso quasi unanime, invece, per lo spot di Antonio Decaro, candidato Pd per il Sud, il quale si mostra alle prese con severi insegnanti di Calabria, Puglia, Campania, Abruzzo e Molise che cercano di impartirgli i rudimenti dei dialetti locali. La prova attoriale di Decaro è promossa dagli utenti del web: “Un candidato del Pd che fa una campagna comunicativa non cringe? C’è speranza per l’opposizione”, dice taluno; “Viene quasi voglia di votarlo”, chiosa un altro. Sicuramente efficace ed esemplificativo della varietà dialettale italiana, una nuova medaglia per l’agenzia pugliese Pro Forma che l’ha ideato.
Ci sono poi gli Stati Uniti d’Europa, l’alleanza tra Emma Bonino e Matteo Renzi. Un nome fortemente evocativo, quasi potente, e una collocazione chiara. Il logo, forse, un po’ meno, a causa dei molti simboli presenti all’interno, ben 6. Nulla, però rispetto ai 17 (DICIASSETTE!) simboli presenti in Sud Chiama Nord di Cateno De Luca. E tra i candidati di Stati Uniti d’Europa sta facendo parlare molto di sé lo spot di Alfonso Maria Gallo: ‘Se l’Europa è un pollaio, vota Gallo’. Semplice e intuitivo, no?
E il vecchio alleato di Matteo Renzi, Carlo Calenda, ha scelto un simbolo dai colori blu e verde fluo, sicuramente accattivanti, ma con non poca confusione all’interno, dovuta agli 8 simboli delle associazioni o partiti alleati, al nome di Renew Europe e Siamo Europei, e al nome di Calenda, ovviamente. Un’insalata, insomma. Peccato, perché Calenda le campagne elettorali le sa fare, alternando momenti alti (come quando fa proposte concrete, a cominciare dalla politica estera) a momenti decisamente pop, come la spiegazione fornita a Salvini via tutorial di come “salvarsi” dai tappi di bottiglia mentre si beve. Nel mezzo, la bravura e la competenza di Elena Bonetti.
Chi soffre di visibilità è il Movimento 5 Stelle, che si è fermamente opposto al confronto solo tra Meloni e Schlein, rivendicando pari dignità per Giuseppe Conte. Non ha avuto particolari fiammate e ha puntato soprattutto a una politica pacifista, esplicitata nell’hashtag #pace presente nel simbolo elettorale, tutto sommato pulito e senza il nome del leader. Mentre la campagna è stata incentrata sull’immagine e sulla spendibilità mediatica del suo leader. Il momento forse più ricordabile lo spot elettorale per l’ex calciatrice e allenatrice, Carolina Morace, in cui Conte scende letteralmente in campo e, dopo qualche palleggio, recita in camera: “Facciamo insieme gol in Europa”. Come direbbero in Boris: Genio!
Ma alla fine, qualsiasi sia il simbolo, quale che sia lo slogan, quale che sia la campagna condotta, ciò che conta è il voto finale degli elettori. Quindi: Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza. Cit.