L’anno del grande ricambio o l’anno delle conferme (più o meno scontate). Considerando elezioni presidenziali, parlamentari e locali, il 2024 porterà alle urne metà della popolazione mondiale, oltre quattro miliardi di persone in 62 nazioni, “il più grande anno di elezioni della storia” ha titolato l’Economist. Diverse saranno le scadenze decisive per la definizione degli assetti e delle scelte globali in merito a guerre, clima, economia, materie prime, povertà, multipolarismo. Numerose le partite aperte (Usa, la più decisiva) e tanti gli esiti già scritti di competizioni democratiche almeno in facciata di un secolo che avrebbe dovuto ratificare per dirla con Fukuyama la “fine della storia”, l’apogeo della democrazia liberale. Se tanti confronti possono essere oggetto di discussione, altri sono invece definiti in alternanze impossibili ed esiti scontati, segno che nel XXI secolo la democrazia è in varie latitudini una conquista tanto difficile da ottenere quanto fragile da mantenere, per la sua inadattabilità a culture politiche nazionali. Le elezioni sono ancora una volta la ratifica o un’attività di maquillage di regimi dispotici, sebbene distribuiscano la tessera elettorale.
Democrazia senza alternanza
A marzo sarà il turno della Russia, democrazia incompiuta per eccellenza, dove Putin di fronte ad un’opposizione annichilita si avvia verso il suo quinto mandato presidenziale. Il leader 71enne salvo particolari scherzi del destino si ritroverà in sella alla Federazione sino al 2036 (in tal caso sarà presidenzialmente più longevo di Stalin). Immerso in un quadro internazionale traballante, Vladimir cerca conferme per rafforzare la propria posizione dopo quasi due anni di una costosa guerra in Ucraina. Altri diversamente democratici chiamati al voto saranno l’amica stretta di Mosca la Bielorussia (25 febbraio, parlamentari) e l’Iran (marzo, parlamentari). Anche gli elettori ruandesi andranno al voto (15 luglio parlamentari e presidenziali). Nello stato africano, testa di ponte cinese nel continente, cercherà una semplice rielezione Paul Kagame, eletto presidente per la prima volta nel 2000 è stato riconfermato nell’agosto 2017 per sette anni con il 98,63% dei voti. Sarà rieleggibile per altri mandati grazie ad un emendamento costituzionale. Decisivo, per questi paesi sarà soprattutto l’affluenza al voto, unico indice esaustivo di “democraticità”. Si voterà anche in democrazie in fase di assestamento, anche se l’esito appare scontato: l’Azerbaijan (7 febbraio, presidenziali) confermerà probabilmente il presidente Ilham Aliyev, pronto a riscuotere con le elezioni anticipate i successi militari in Nagorno Karabakh.
L’Africa tra mille dubbi
Alla prova del voto le incerte democrazie africane. Primi a decidere saranno gli elettori del Senegal (25 febbraio, presidenziali), dove il primo ministro Amadou Ba tenterà di agguantare la presidenza. Tra la primavera e l’estate si voterà per il rinnovo del parlamento in Sudafrica, qui il partito che fu di Nelson Mandela potrebbe perdere per la prima volta la maggioranza dal 1994. In Tunisia (novembre), che dopo la Rivoluzione dei Gelsomini ha contato sei presidenti e dodici governi, si vedrà se Kais Saied riuscirà a puntellare la propria posizione con un nuovo mandato presidenziale. L’opposizione, divisa, punterà sull’astensione. In Algeria (dicembre), paese che con il covid e guerra in Ucraina ha acquisito una nuova centralità grazie alla sue risorse, l’attuale presidente Abdelmadjid Tebboune tenterà la riconferma. Al voto andrà il Ghana (7 dicembre) e probabilmente anche il Sud Sudan, le prime elezioni dopo la tumultuosa prova dell’indipendenza. Molti stati africani, salvo poche eccezioni, devono ancora consolidare le proprie democrazie, pacificando gli scambi di consegne, evitando di scivolare nell’odio interetnico. Alternativa? Consegnarsi a leader dittatoriali che sacrificano la pacificazione alla libertà. Sullo sfondo resta la straordinaria ricchezza di un continente che in termini di gestione risorse, resta ancora appannaggio di attori terzi o di ristrettissimi gruppi di potere incapaci di generare ricchezza e sviluppo.
Enormi democrazie asiatiche
A decidere del proprio destino politico sarà anche la più grande democrazia del mondo, l’India. In primavera 950 milioni di elettori sceglieranno se affidare per la terza volta il ruolo di primo ministro al conservatore Narendra Modi, forte dei successi in campo economico, o altrimenti puntare sulla grande coalizione di opposizione composta da 28 partiti. Alle urne saranno chiamati i vicini del Pakistan (parlamentari), nazione attraversata da costanti turbolenze: l’ex primo ministro Imran Khan si trova attualmente in carcere e il parlamento è sciolto dai primi di agosto dell’anno scorso. A recarsi alle urne sarà anche il più popoloso paese a maggioranza musulmana del mondo (oltre 273 milioni di abitanti), l’Indonesia, chiamata a decidere il 14 febbraio il successore del presidente Joko Widodo. A essersi già espressi a inizio anno sono gli elettori del Bangladesh che hanno confermato, per il terzo mandato, la premier Sheikh Hasina. Il partito della 76enne, Awami League, ha ottenuto oltre 3/4 dei seggi in parlamento. Nessun dubbio nemmeno a Taiwan. Lo scorso 13 gennaio con l’elezione di William Lai gli elettori hanno ribadito il proprio no alla Cina e la propria idea di indipendenza.
Usa, back to the future
Il 5 novembre l’appuntamento più atteso per gli equilibri mondiali, le presidenziali negli Stati Uniti. I candidati alla Casa Bianca verranno scelti dalle primarie. Per il Partito Democratico probabile ma non certa la candidatura di Joe Biden. Il presidente uscente rassicura parte dell’elettorato liberale ma non piace alla base del partito. Altri nei sono la sua età e le sue non chiare condizioni di salute. In campo repubblicano, ma è presto ancora per dirlo, gli analisti profilano una vittoria Donald Trump che ha come sfidanti Nikki Haley e Ron DeSantis. Sulla candidatura dell’ex presidente pesano tuttavia diversi casi giudiziari e, senza novità, l’ostilità di gran parte dell’establishment. Fossero confermate le previsioni, si tratterebbe di un ritorno al passato, con un’elezione presidenziale tra due candidati uno di 81 (Biden) e l’altro 78 (Trump), elementi anagrafici che la dicono lunga sulla capacità di ricambio della democrazia americana, mai così polarizzata e svilita in entrambi i campi a livello contenutistico come in quest’ultimo decennio. Per quanto riguarda i termini di confronto, due tendenze, “classiche” della politica USA: una quella democratica interventista nello scenario internazionale e quella repubblicana protezionistica e isolazionista, con eventuali distinguo in capo ai diversi candidati alla primarie. L’esito delle elezioni americane dirà perciò molto sui prossimi equilibri economici e politici, su quelli che saranno i rapporti con i membri della Nato, su quanto riguarda i rapporti con la Russia, gli equilibri nell’area dell’Indo-Pacifico e sugli scambi commerciali globali.
America Latina tra socialismo e ultraliberismo
Al voto si andrà anche in America Latina, alla ricerca di una nuova ragion d’essere dopo la crisi del socialismo e l’apertura di una prospettiva ultraliberista con l’elezione di Milei in Argentina, quindi insieme all’impero statunitense o come alternativa. Si voterà in El Salvador (4 marzo). Qui ci riproverà il presidente Nayib Bukelein, forte dei successi riscossi con il pugno duro contro la criminalità organizzata, accusato in questo per la violazione di diritti umani, candidato nonostante la costituzione non consentisse ad un presidente di ripresentarsi per un successivo mandato. A votare andrà anche il Messico (2 giugno, presidenziali) dove a sfidarsi saranno due donne; a sinistra Claudia Sheinbaum per il Movimento di Rigenerazione Nazionale, a destra Xochtil Galvez del Partito di azione nazionale, ora all’opposizione. Andranno alle urne i brasiliani, fortemente divisi e in uno stato di campagna elettorale permanente caratterizzato da attacchi verbali violenti. La sfida è quella tra Partito dei lavoratori di Lula e il Partito Liberale di Bolsonaro (ineleggibile sino al 2030). Due metropoli al voto: San Paolo, dove il partito di Lula appoggerà per la prima volta il candidato di un altro partito e Rio De Janeiro, roccaforte della famiglia Bolsonaro, dove il figlio dell’ex presidente ha annunciato la sua candidatura a sindaco. Entrambe le città saranno un banco di prova per le elezioni presidenziali del 2026. Ed elezioni ci saranno anche nel sorvegliato speciale dell’America latina, il Venezuela (ottobre), avvitato da anni in un profonda crisi economica. La presenza di osservatori esterni e indipendenti (tra cui la UE) è stata barattata da Nicolas Maduro in cambio di un allentamento delle sanzioni commerciali.
L’Europa delle grandi scelte
Tra il 6 e l’8 giugno i 27 stati UE voteranno per il rinnovo del Parlamento, il primo voto dopo la Brexit per scegliere i 720 deputati. L’Europa arriverà alla scadenza con importanti temi sul tavolo, il tema dell’inflazione, la gestione dei flussi migratori, le grandi sfide della transizione energetica, del clima e il dibattito per ridisegnare gli equilibri di istituzioni comunitarie come Commissione e Consiglio Ue. La guerra ai confini ha sollevato numerosi dubbi sulle politiche adottate in passato, soprattutto in tema di difesa e in campo energetico. Il prossimo Parlamento e la prossima Commissione, si troveranno a prendere decisioni su come proseguire il processo di integrazione e il modo di reagire alle grandi sfide. Si tratta di capire l’indirizzo che prenderanno, se sarà a riproporsi (come suggeriscono i sondaggi) una “maggioranza Ursula”, l’alleanza tra i popolari del Ppe, i socialisti di S&D e i liberali di Renew Europe, che portò von der Leyen alla presidenza della Commissione nel 2019, o meno – con i partiti conservatori a fare da stampella ai popolari. Si voterà a più livelli anche in singoli Paesi. In Germania nei länder dell’est (22 settembre), Sassonia, Turingia e Brandeburgo, dove si attende una crescita del partito dell’estrema destra di AfD. Al voto anche Croazia (22 settembre, parlamentari e presidenziali), in Lituania (12 maggio), in Portogallo (10 marzo) e Belgio (9 giugno).
Regionali ed europee, la vera prova del Governo Meloni
Si vota anche a casa nostra. Gli italiani saranno chiamati ad eleggere i propri rappresentanti al parlamento europeo e scegliere governatori e consiglieri di cinque regioni: Sardegna (25 febbraio), Abruzzo (10 marzo), Basilicata (giugno), Piemonte (giugno), Umbria (ottobre), attualmente in mano alla coalizione di centrodestra. Andranno al voto anche 3.700 comuni, 27 capoluoghi di provincia e 6 capoluoghi di regione: Bari, Cagliari, Campobasso, Firenze, Perugia e Potenza. Ad un anno e mezzo di distanza dalle politiche, europee e regionali saranno un importante banco di prova per la maggioranza di governo, non solo per fare un check sui numeri ma anche per definire i pesi e valutare la qualità del confronto all’interno della coalizione. Le prime crepe si sono intraviste con la scelta di candidati governatori, come avvenuto nell’avvicendamento in Sardegna tra il governatore uscente Solinas (Psd’az satellite della Lega) con il sindaco di Cagliari Truzzu (FdI). Se da un lato la Meloni deve dare risposte esaustive su temi che vanno dall’inflazione ai i flussi migratori e gestire i guai dei membri appartenenti al proprio partito, dall’altro potrà sfruttare il lustro internazionale – vero punto di forza di Giorgia – che le verrà offerto dalla presidenza del G7. In una politica sempre più personalizzata molto dipenderà da quanto la leader riuscirà a mantenere intatto il consenso attorno al proprio nome.