Un nove maggio che quest’anno ha assunto un significato sociale e narrativo molto importante. Da un lato la festa dell’Europa, dall’altro quella della vittoria russa contro il nazifascismo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Se negli anni precedenti però le due ricorrenze si erano accavallate per sottolineare, entrambe, i valori di pace e libertà, quest’anno al contrario, sono servite per intensificare il clima di schermaglia che sta dividendo il continente.
A Mosca, il presidente Putin ha fatto le cose in grande. Mai come quest’anno serviva una cerimonia dal forte slancio nazionalista, sebbene la sua dialettica sia stata incentrata più sulla retorica patriottica che sul conflitto ucraino. Anche se il riferimento al conflitto non è mancato: «Oggi – ha ricordato Putin nel suo breve discorso – come in passato si combatte per la nostra gente nel Donbass, per la sicurezza della madrepatria, per la Russia. Siamo orgogliosi della coraggiosa generazione dei vittoriosi mai sconfitti, siamo orgogliosi di essere i loro successori, ed è nostro dovere preservare la memoria di coloro che hanno sconfitto il nazismo e ci hanno affidato il compito di mantenerci vigili e fare il possibile per evitare l’orrore e un’altra guerra globale». E ha denunciato «la minaccia del tutto inaccettabile posta alla Russia, alle sue frontiere, dalla Nato, e l’inevitabilità dello scontro fra i neonazisti sostenuti dagli Stati Uniti e dai loro servitori».
Da Berlino, invece, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha replicato: «Putin non ci lascia altra scelta – ha detto intervenendo al congresso del sindacato Dgb -. Ha leso il principio dell’inviolabilità dei confini in Europa per il suo progetto di rivincita di un impero russo. Accettare questo significherebbe non solo piantare in asso le vittime, ma anche rafforzare il suo aggressore nella sua azione criminale», motivando la decisione di fornire armi pesanti a Kiev.
Segnali, da una parte e dall’altra del continente, che lasciano presagire un’escalation delle ostilità e che comunque sembrano allontanare quella pace intesa come presupposto fondamentale per la costruzione del progetto europeo dopo il secondo conflitto mondiale.
Tuttavia il sogno europeo continua ad ardere anche in un momento di difficoltà come quello attuale. Oggi il presidente del consiglio Mario Draghi, intervenendo a Ventotene all’Europa Festival per festeggiare il nove maggio ha ribadito come «di fronte all’invasione dell’Ucraina, i valori contenuti nel Manifesto di Ventotene sono più attuali che mai». Il ritorno a casa della prima copia del Manifesto è l’occasione «per rinnovare il nostro impegno a favore della libertà, della democrazia e della pace. Dobbiamo ricordare il ruolo avuto dall’idealismo federalista nella costruzione di una coscienza europea a cui dobbiamo affiancare il pragmatismo che è stato alla base della creazione delle prime istituzioni europee e della loro evoluzione».
E da Parigi Macron gli ha fatto eco, chiarendo che «per organizzare l’Europa, davanti al nuovo contesto geopolitico creato dalla guerra in Ucraina, occorrerebbe creare quella che chiamerei una comunità politica europea. Questa nuova organizzazione europea permetterebbe alle nazioni europee democratiche, aderenti ai nostri valori, di trovare un nuovo spazio di cooperazione politica».
Il nove maggio ha chiarito un concetto: l’Europa punta a est, ai Balcani e, non ultima all’Ucraina. L’invocazione al federalismo europeo, all’integrazione e, sul fronte interno, l’invito quasi unanime alla riforma dei trattati per aumentare l’inclusione politica europea, da un lato, e per snellire il processo decisionale, dall’altro, sono indizi di un nuovo equilibrio geopolitico che si sta inseguendo, anche se passando attraverso una formula traumatica e drammatica come la guerra. Un equilibrio, però, che sembra allontanare sempre di più da da Mosca il baricentro del progetto.