Chi ama e conosce la politica sa quanto sia difficile perdere un’elezione, perderla male, e cercare – impresa sempre incerta – un nuovo assetto, un nuovo equilibrio, una nuova dimensione. Se poi, e questo è il caso del Pd, per troppi anni si è percorsa la via del potere senza consenso, acquisendo – più o meno consapevolmente – la dimensione di partito governista “a prescindere”, fare i conti con una differente e assai meno gratificante realtà è maledettamente complicato.
Ciò deve indurre tutti (incluso chi, come chi scrive queste righe, ha un orientamento culturale molto differente) a mantenere un profondo rispetto del travaglio dem, e a considerare con spirito di incoraggiamento il cammino che condurrà quel partito alla scelta di un nuovo leader. Comunque la si pensi politicamente, una democrazia robusta ha bisogno sia di una destra sia di una sinistra forti e spendibili, in grado potenzialmente di sfidarsi e alternarsi alla guida del paese.
Ciò detto (lo ribadisco: non per mera clausola di stile), questo primo trimestre di attività politica del Pd dopo il 25 settembre appartiene alla categoria dell’horror: verrebbe da dire che, su questa base, si potrebbero assegnare tesi di laurea su come non condurre un’opposizione credibile ed efficace.
Verso l’esterno, cioè nei confronti del governo, è prevalso un approccio isterico, quasi bambinesco: grida surreali contro il pericolo fascista, poi urla scomposte contro un esecutivo pigliatutto (avendo il governo sostituito per ora solo due – ripeto: due – figure amministrative, e cioè il capo dell’Aifa e il commissario alla ricostruzione post terremoto), e, costantemente, l’annuncio di una imminente fine del mondo, naturalmente destinata a non avversarsi. Un giorno si profetizza lo sfascio dei conti pubblici, un altro giorno lo scontro dell’esecutivo con l’Ue, un altro giorno ancora che il Quirinale non firmerà un certo decreto. Tutte illusioni destinate a svanire.
Verso l’interno, le cose non vanno meglio. Davvero può credibilmente candidarsi alla guida del paese un partito che fatica perfino a fissare definitivamente la data del suo congresso? O che litiga sulle modalità (fisiche oppure online) della consultazione dei suoi iscritti? La sensazione – ridicolo a parte – è che il Pd sembri più attrezzato a parlare dei suoi problemi che non di quelli del paese: ed è ovviamente il disastro peggiore che possa capitare a una forza politica.
Il nostro suggerimento – da qui – è tanto semplice quanto umile: ancorare le candidature alla segreteria a quelle che un tempo si sarebbero chiamate “mozioni politiche”, cioè obiettivi-direzioni di marcia-scelte di fondo. Sarà banale: ma è l’unico modo per far sì che la discussione si rivolga verso i problemi reali, e appaia ai cittadini meno lunare. Altrimenti – e non è un auspicio ma una elementare constatazione – un destino “francese” o “greco” è nelle cose, com’è accaduto nei paesi europei dove lo storico partito della sinistra si è ritrovato ridotto ai minimi termini. Nell’era della turbopolitica, non ci sono cadute controllate, perdite progressive di uno o due punti percentuali: quando si supera una certa soglia, il crollo può essere verticale e definitivo.