Politica
“Battiquorum!”, quorum fragile all’Assemblea nazionale del Pd
Di Ettore Maria Colombo
Quando si terrà il congresso? Presto, pare…
Si tinge di giallo la ormai prossima convocazione dell’Assemblea nazionale del Pd che, sabato prossimo, 19 novembre, dovrà decidere il futuro congresso dem. Se anticipato, con quali regole, quale iter, etc. Ora, uno dei pochi punti fermi è che – così, almeno, pare – l’accelerazione sui tempi del congresso ci sarà. Questo il punto fermo al Nazareno, dove si sta ragionando sulle possibili date per tenere le primarie, che verranno valutate “tutte” anche alla luce del voto delle regionali. Tra le ipotesi che stanno circolando tra i dem c’è quella del 19 febbraio, ma nulla è ancora definito e “si deciderà sabato”, si rimarca dal Nazareno. Ma, in Lazio, si voterà il 5 o il 12 febbraio (ieri la Direzione regionale dem ha approvato la candidatura dell’ex assessore Antonio D’Amato) e in Lombardia, dove invece il Pd è nel marasma tra le candidature di Moratti, Maran, Majorino (gli ultimi due del Pd, la prima no) non oltre là. Ergo, bisogna decidere se fare il congresso prima o dopo delle regionali che rischiano di trasformarsi in una batosta di dimensioni ciclopiche: due sconfitte. Fare il congresso prima o dopo le Regionali? Già questo, per il Nazareno, è un bel busillis, ma tutto sembra ‘congiurare’ verso una data antecedente, cioè ai primi di febbraio, non seguente, cioè alla fine, per tenerlo.
Il problemino quorum in Assemblea nazionale dove serve la maggioranza assoluta per farle…
L’ordine del giorno dell’Assemblea di sabato, dunque, prevede “modifiche allo Statuto nazionale, inserimento della norma transitoria per l’avvio del procedimento congressuale; comitato costituente nazionale”.
“Fin qua, tutto bene” diceva il protagonista di un noto film, “il problema – aggiungeva, cadendo da un grattacielo – non è la caduta, ma l’atterraggio” (il film è francese e si chiama L’Haine, L’odio). Ora, il problema sta, appunto, nella composizione dell’Assemblea nazionale, massimo organismo, dentro il Pd, cioè quello che i segretari li elegge (o, meglio, ne ratifica l’elezione, dopo le primarie ‘aperte’) ma li può anche, volendo, destituire.
Soprattutto, solo l’Assemblea può ‘cambiare’ le regole del gioco, come pure si vuole fare ora: aprendo il congresso ai partiti ‘fratelli’ (Art. 1, Demos, il Psi ha già detto ‘no, grazie, fate voi’) e pure a iscritti e candidati non iscritti (la Schlein).
Non può farlo né la Direzione né tantomeno la Segreteria che sono organi in cui la maggioranza è di stretta fiducia del segretario (pro-tempore), ma solo l’Assemblea che rappresenta ‘tutti’, cioè pure le minoranze che il congresso l’hanno perso (quello della volta precedente all’ultima, ovvia).
Ora, il problema è che, in base allo Statuto, le modifiche allo Statuto medesimo e al regolamento congressuale che, di volta in volta, viene adottato, vanno prese a maggioranza assoluta (e, dicasi, ‘assoluta’) dei componenti e non dei presenti. Una norma e un’asticella non facile, da superare. Per capirsi, persino dentro il Parlamento, le fiduce alle leggi e persino quella al governo che nasce si votano a maggioranza ‘semplice’ (cioè dei presenti all’atto del voto) e non a maggioranza ‘assoluta’, quorum richiesto solo per alcune, particolarissime, votazioni.
Il numero troppo alto che ha visto troppi addii
Ecco, il problema è, dunque, che i componenti dell’Assemblea nazionale del Pd sono un numero da un lato molto alto (oscillano, di media, tra 800 e mille!) e dall’altro molto difficile da ottenere che si riuniscano, tutti tutti, nello stesso luogo e nello stesso giorno per vari motivi. Alcuni se ne sono andati per ‘vecchiaia’ (sono, cioè, morti), alcuni per ‘disperazione’ (hanno mollato e non si sono più re-iscritti al partito), chi per “far carriera, ed è la morte un po’ peggiore”, cantava Francesco Guccini parlando delle note “Osterie di fuori porta”. Per capirsi, dal 2019 a oggi, il Pd ha subito diverse scissioni: quella di Possibile, movimento di Civati (Schein vi aderì), Italia Viva di Matteo Renzi, Azione di Calenda. Molti membri dell’Assemblea e mai rimpiazzati. Morale, raggiungere il quorum, oggi, è un’impresa non piccola e pure molto a rischio.
Ecco svelato il perché della convocazione dell’Assemblea ‘in remoto’, come si voleva fare in un primo tempo, e poi ‘un po’ come vi pare’ (chi vuole in remoto e, chi vuole, in presenza) che tanto ha fatto discutere e polemizzare, di recente.
Le modifiche da apportare sono tante, pesanti: l’apertura della platea congressuale anche ai ‘non’ iscritti al Pd è, di certo, la più rilevante, ma anche la decisione su quanto, come e perché debba essere anticipato, il congresso, se cioè di pochi mesi, entro febbraio, di qualche mese, entro marzo, o di tanti mesi, se è congresso costituente. E, appunto, lo Statuto parla chiaro: serve la maggioranza assoluta dei componenti per farlo.
Lo dice, nero su bianco, l’Articolo 51 (Revisioni dello Statuto e dei Regolamenti): “Le modifiche del presente Statuto, comprese quelle della denominazione e del simbolo, sono approvate dall’Assemblea nazionale con il voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti”. Morale, hic Rodhus, hic salta: non puoi scappare dal quorum richiesto: la metà più uno dei membri.
La polemica sotterranea di chi teme l’inghippo
Ora, il marchingegno escogitato (metà da remoto e metà in presenza) fa sentire puzza di bruciato, soprattutto alle minoranze. Il partito è governato, ancora, da Letta, più l’area Franceschini, più la sinistra interna di Orlando-Provenzano-Cuperlo.
All’opposizione stanno Base riformista (gli ex renziani guidati da Lorenzo Guerini e Luca Lotti), i Giovani turchi di Matteo Orfini e l’area Delrio, più un gruppo di cani sciolti senza alcun padrone.
Problema nel problema: i delegati eletti all’ultimo congresso che si è tenuto con le primarie (2019, lo vinse Nicola Zingaretti, che poi si dimise, nel 2021 arrivò Enrico Letta, la cui elezione, però, non passò per le primarie, ma per l’Assemblea, che lo ‘acclamò’ segretario, una finta unanimità) rispondono, in maggioranza, all’area Zingaretti, distinta ma non distante dalla sinistra interna. Ed è con quella che tutti devono fare i loro conti. Morale, gli oppositori interni dell’area Letta-Franceschini-Zingaretti-Orlando-Provenzano temono un regolamento (nuovo) fatto con un ‘colpo di mano’ e senza piena legittimità a farlo, cioè privo del quorum necessario per approvarlo.
Ma quanti sono i membri dell’Assemblea? Boh
Altro problema, ma esattamente quanti sono i componenti dell’Assemblea nazionale del Pd? La risposta non è semplice. Se fosse semplice, si saprebbe subito, già da ora, il quorum relativo: se fossero mille tondi i componenti, la metà più uno (dice l’aritmetica) fa 501, se fossero 900, 501, etc Ma i conti, come sempre avviene in casa dem, sono complicati da una serie di astruse variabili.
E qui tocca prendere lo Statuto e leggerlo, per cercare di dipanare il filo dell’intricata matassa.
Il quale Statuto, all’articolo 6, recita così: “L’Assemblea nazionale è composta da: seicento eletti mediante liste collegate direttamente alle candidature a Segretario nazionale alle primarie. (nella composizione delle liste devono essere rispettate la parità e l’alternanza di genere);
In più, è composta dai segretari fondatori del PD (due: Franceschini e Fassino, ndr.), gli ex segretari nazionali del PD iscritti (cinque: Veltroni, Martina, Orfini, Zingaretti, Letta, Bersani è uscito, ma potrebbe rientrare, Renzi è uscito, Epifani è deceduto, ndr.), gli ex Presidenti del Consiglio iscritti (uno: Gentiloni, ndr.), i segretari regionali (venti), i segretari provinciali (120), i segretari delle federazioni all’estero (quattro, ndr.), delle città metropolitane e regionali (dieci, ndr.), la Portavoce della Conferenza nazionale delle donne (una, ndr.), i coordinatori PD delle ripartizioni estero (quattro, ndr.), il segretario dei Giovani Democratici (uno); e qui il totale, parziale, si può sbagliare, fa 190.
Cento tra deputati (sono 69, ma eletti con Italia democratica e progressista, cioè non solo del Pd, ndr.), senatori (38, idem, ndr.), europarlamentari (15) aderenti al partito indicati dai rispettivi Gruppi (il totale fa 122, quindi 22 restano fuori); i sindaci delle città metropolitane (sette, ndr.), dei comuni capoluoghi di provincia e di regione e i presidenti di regione (quattro: Campania, Puglia, Toscana, Emilia-Romagna) iscritti, in attualità di mandato. E qui sono una ventina ma il calcolo è impossibile: il Pd governa mille comuni su 8mila.
“L’Assemblea nazionale è infine integrata da un numero variabile di componenti, espressione delle candidature alla Segreteria nazionale, non ammesse alla votazione presso gli elettori (tre). Ai candidati alla carica di Segretario nazionale non ammessi alla votazione, i quali rinuncino a sostenere altre candidature ammesse, è riconosciuto il diritto a nominare un numero di persone pari a due, di cui un uomo e una donna, per ogni punto percentuale di voti ottenuti, su quelli validamente espressi, in occasione della consultazione preventiva tra gli iscritti, purché abbiano ottenuto un numero di voti pari almeno al cinque per cento di quelli validamente espressi”.
Vi è venuto il mal di testa? Anche a noi. In ogni caso, a spanne, parliamo di 600 eletti ‘sicuri’ (membri dell’Assemblea nazionale ultima votata), cento parlamentari (gli ex sono decaduti, ma non sono ancora stati scelti i ‘cento’ nuovi), più un numero imprecisato che può variare tra 200 e 300 membri che, a vario titolo, ne fanno parte. In pratica, siamo tra i 900 e mille ‘canonici’ o soliti, quelli che, cioè, vengono dati, di volta in volta.
Le diverse modifiche statutarie fatte finora
In verità, dal 2007, quando è nato, ad oggi, lo Statuto del Pd è stato cambiato, e pure più volte. I vari documenti fondativi del nuovo partito furono approvati il 16 febbraio 2008, durante la II seduta dell’Assemblea costituente nazionale.
Il segretario è il rappresentante nazionale del Partito, nonché il candidato come Presidente del Consiglio dei Ministri del partito. Viene eletto a scrutinio segreto dall’Assemblea nazionale e non può essere candidato per più di due mandati pieni, ognuno di quattro anni. Nella prima versione, i tre candidati con il consenso del maggior numero di iscritti, purché superino il 5% dei voti validi, e i candidati che ottengono più del 15% dei voti validi e la medesima percentuale in almeno cinque regioni o province autonome vengono ammessi alla seconda fase delle elezioni. Poi, in epoca Zingaretti, si decise che alla seconda fase (le primarie aperte) accedevano solo i primi due classificati nel ‘giro’ degli iscritti, cioè nelle primarie chiuse. Primarie che, però, dato che l’iter congressuale viene aperto, ora, ai non iscritti vengono, di fatto, ‘inquinate’ (si fa per dire), anche nel primo giro, da una platea più vasta. Sempre che, si capisce, si trovi il quorum bastante per farle, tutte queste, assai capziose, modifiche.
Intanto, si infittisce il busillis sui candidati…
Intanto, però, aumentano gli aspiranti candidati alla segreteria del Pd mentre si riducono, forse, i tempi delcongresso, tra fine gennaio e inizio febbraio. Enrico Letta, segretario dimissionario, ci sta lavorando. Intanto, sabato prossimo alle 10 – in remoto e in presenza, in modalità mista insomma, come all’università l’anno scorso… – si svolgerà l’assemblea nazionale.
Le modifiche, come già detto, servono per aprire il partito all’esterno, favorendo il rientro di Roberto Speranza con Articolo 1, Bruno Tabacci ed Elly Schlein, che si vuol candidare alla guida del Pd pur non essendo mai stata iscritta al Pd. In campo c’è già Paola De Micheli, un tempo lettiana, mentre Stefano Bonaccini, il favorito, presidente della Regione Emilia-Romagna, non ha ancora ufficializzato la sua candidatura, che però ci sarà. La sta preparando da un paio d’anni, da quando ha vinto le elezioni regionali del 2020. A sostenerlo ci sarebbe Base riformista guidata da Lorenzo Guerini. Dario Nardella, sindaco di Firenze, potrebbe essere in campo (e c’è chi dice che a sostenerlo ci sia Dario Franceschini, che però vuole si candidi in ticket con la Schlein. Ha intanto iniziato il suo tour di presentazioni del libro che ha appena dato alle stampe per la Nave di Teseo, chiaro segnale della discesa in campo.
E a sinistra? Non è ancora chiaro che cosa farà Andrea Orlando, mentre altri, a sinistra, tifano per Elly così come è da capire se Brando Benifei, europarlamentare, coprirà la quota “giovani”, che ancora manca, alle candidature…