Politica

Autonomie regionali, il governo al suo primo vero confronto interno

12
Gennaio 2023
Di Giampiero Cinelli

Il centrodestra continua a mantenere unità e un discreto gradimento, ma al suo interno la convivenza è tutt’altro che facile. I partiti ora egemoni, provengono da estrazioni e culture diverse, esercitando quindi varie spinte. C’è su tutte l’istanza autonomista della Lega, tornata a chiedere una riforma che dia più potere alle regioni. Dopo averci provato nel 2005 e nel 2009. L’iniziativa è di Roberto Calderoli, ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, il quale ha presentato la bozza del ddl. A dire il vero, la prima svolta in senso più autonomista è stata impressa dal centrosinistra, con la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001. Di fatto, però, quelle modifiche non hanno ancora avuto un pieno sviluppo.

Proprio su quanto legiferato allora, la Lega vuole fare leva. Con riferimento al terzo comma dell’articolo 116, che dice: “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 […] possono essere attribuite ad altre regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata”.

In sostanza, l’intervento della passata riforma allentava la maglie che c’erano tra Stato e regioni. Poiché nonostante la Costituzione primigenia già consentisse autonomie e avesse riconosciuto cinque regioni a statuto speciale, era implicito che le azioni delle regioni non potessero andare contro l’interesse nazionale e penalizzare le altre regioni. Ed era lo Stato ad avere l’ultima parola in merito a tali giudizi.

Come si intende, non c’è bisogno di una legge costituzionale. Basta una legge ordinaria approvata a maggioranza assoluta delle Camere. La riforma del Titolo V introduceva 23 materie che diventavano concorrenti tra Stato e regioni. Adesso con questo ulteriore passo, gli enti territoriali cercherebbero di ottenere competenza esclusiva sulle voci in questione. Tra cui rientrano anche ambiti fondamentali come l’istruzione o elementi che generalmente non si pensano appannaggio territoriale, come le politiche sul commercio estero e i rapporti con l’Ue. Veneto, Lombardia e Piemonte hanno dichiarato di puntare a tutte le 23 materie. C’è anche l’Emilia Romagna guidata da un governatore di centrosinistra, il Dem Stefano Bonaccini, il quale è favorevole a maggiori autonomie almeno su 15 competenze e, quindi, indirettamente, potrebbe favorire la riuscita delle intese sul piano parlamentare. La Toscana invece desidera autonomia principalmente sulla gestione dei beni culturali.

Le criticità

La bozza di Calderoli non indica procedure dettagliate con cui richiedere l’autonomia né su come attivarla. Servirebbe solo un’intesa tra Stato e Regioni, sottoscritta da entrambi. Successivamente, il Consiglio dei ministri presenterebbe al Parlamento un disegno di legge di approvazione, per il quale pare non siano contemplati emendamenti. Certo il parlamento può bocciare l’intesa, ma avrebbe comunque poca voce in capitolo e al voto i numeri in parlamento risultano decisivi.

C’è poi la delicata questione dei Livelli essenziali di prestazione (Lep). Lo Stato prevede dei livelli nei vari servizi pubblici sotto cui non si può scendere, altrimenti i principi costituzionali verrebbero considerati disattesi. Dunque le regioni che chiedono più autonomia sono tenute ad assicurare i Lep, anche grazie ai fondi che a quel punto lo Stato trasferirebbe. Di conseguenza, il rischio che le regioni più solide che ottengono l’autonomia, possano beneficiare di maggiori risorse rispetto agli enti più poveri e meno efficienti. Non solo. I livelli essenziali di prestazione vanno definiti e concordati qualora si concedesse l’autonomia. Ma individuarli non è così semplice. Si pensa che ciò verrà fatto con dei Dpcm. Entro un anno dall’entrata in vigore della legge di autonomia. Ma, se entro un anno i Lep non sono stati formalizzati, le funzioni possono comunque passare alla rispettiva regione. Con quali fondi? E l’eventualità che poi i Lep non vengano rispettati è alta. Qualora la quantificazione delle risorse da assegnare non fosse chiara, sarebbe possibile basarsi sulla spesa storica della regione. Ossia su quanto generalmente ha speso per determinati servizi nel corso degli anni. A quel punto è ovvio che le regioni del nord avrebbero maggiori vantaggi. Il giurista ed ex vice presidente della Corte Costituzionale, Paolo Maddalena, decisamente contrario alla riforma, ha citato dei calcoli secondo cui lo Stato perderebbe 190 miliardi di gettito fiscale annuo, se solo ci riferiamo alla Lombardia, l’Emilia e il Veneto.

Gli equilibri

Forse è anche per questo che Giorgia Meloni vuole valutare con calma, senza seguire l’esortazione della Lega a varare la legge quadro entro gennaio. Il premier capisce quanto l’argomento sia divisivo e potenzialmente un boomerang per il suo stesso partito, che tradizionalmente è più romano-centrico ed erede di una cultura patriottica anziché localista. Meloni è anche consapevole di essere attualmente in una posizione dominante, forte dei sondaggi che invece al Carroccio non sorridono. Tuttavia i rapporti politici sono una cosa complessa. Perché anche un largo potere può durare se si è in grado di accontentare un po’ tutti. Il patto di governo, sicuramente concerne qualche obiettivo che il partito di Matteo Salvini deve raggiungere. Al contempo, se Salvini cominciasse ad allontanarsi perché magari insoddisfatto, saprebbe che al momento non avrebbe di per sé la forza trainante di qualche anno fa. Mentre Forza Italia dialoga e non si sbilancia, pur mostrando anch’essa qualche perplessità sul disegno.

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