A tre giorni dal ‘Giorno del Giudizio’, cioè le comunicazioni del premier, Mario Draghi, alle Camere, che si terranno il prossimo mercoledì, prima al Senato della Repubblica (mattina) e poi alla Camera dei Deputati (vale il principio della ‘culla’: vai a parlare nel ramo del Parlamento dove, per la prima volta, hai preso la fiducia…), la situazione è più caotica che mai. Ma prima di esaminare i diversi scenari che si possono creare, e di cui parleremo dopo, conviene dare conto, pur se sommariamente, di quanto successo ieri, domenica, il secondo giorno del ‘Doomsday’ (il Giorno del Giudizio Universale in lingua inglese).
Come sempre, in questi giorni, cioè a partire da giovedì scorso, quando, dopo il voto di fiducia sul dl Aiuti al Senato (fiducia incassata con 172 voti favorevoli, ben sopra la maggioranza assoluta che, peraltro, in queste occasioni, neppure serve), il presidente del Consiglio è salito al Quirinale per rimettere, nelle mani del Capo dello Stato, il suo mandato – ma, come si sa, Sergio Mattarella ha rifiutato le dimissioni, pregando Draghi di recarsi alle Camere per verificare se gode ancora della loro fiducia – l’altalena si è consumata, da venerdì a sabato e domenica, tra due sentimenti contrapposti: i ‘pessimisti’ e gli ‘otttimisti’.
La (cupa) versione dei pessimisti. Draghi lascia
Per i primi, i ‘pessimisti’, non ci sono santi. Draghi è irremovibile e, venendo a mancare un partito che ritiene fondamentale nell’azione del suo governo, il M5s (che, sul dl Aiuti, si è astenuto, nel voto di fiducia uscendo dall’Aula e non partecipando al voto), intende rassegnare dimissioni per lui irrevocabili. Così dicono gli spin doctor, i consiglieri e gli ufficiali di collegamento di palazzo Chigi, mentre Draghi si è rifugiato nel suo buen retiro di Città della Pieve (in Umbria), tra gli affetti famigliari. Dopo la visita di Stato che terrà lunedì in Algeria, con al seguito, peraltro, mezzo governo, per firmare importanti accordi commerciali e sul gas (visita, peraltro, accorciata a una sola giornata), Draghi martedì rientrerà a Roma, scriverà il suo discorso, parlerà davanti alle Camere e, una volta ascoltato il dibattito parlamentare di tutti i gruppi, tornerà al Colle per rassegnare le sue dimissioni. Anche al Quirinale, peraltro, la pensano allo stesso modo e temono che, nonostante le molte pressioni che il ‘vincolo esterno’ (le dichiarazioni, a batteria, di Ue, Nato, Usa, i mercati interni e internazionali, le dichiarazioni, doppiamente ostili, della Russia, gli appelli dell’opinione pubblica internazionale e delle principali cancellerie europee ed estere che urlano tutte, all’unisono, Mario, please, dont’go’) e il ‘vincolo interno’ (le similari dichiarazioni di Confindustria, sindacati, imprese, associazioni, petizioni di cittadini, sindaci, governatori, Cei) stanno esercitando affinché Draghi, dopo il discorso alle Camere, resti dov’è, la decisione del premier è ormai presa e tale resterà.
Le dichiarazioni ‘biforcute’ di M5s, Lega e FI
Del resto, le dichiarazioni dei gruppi politici, dei partiti e dei loro leader, gli unici che possono confermare, o togliere, la fiducia al governo, sono confuse e contraddittorie. Prima i patemi del M5s, che prova a rigirare la frittata, addossando la colpa della rottura al premier e rilanciando i famosi ‘nove punti’ presentati a premier come ‘prezzo’ del mantenimento dell’appoggio al suo governo e che, nonostante la frattura interna, ormai sempre più evidente, tra ‘falchi’ e ‘colombe’, non riesce a dire una parola chiara che sia una se vuole, o meno, togliergli l’appoggio e passare all’opposizione oppure restare al governo. Ma c’è anche la ‘lingua biforcuta’ del centrodestra di governo (ieri Salvini e Berlusconi si sono visti di persona a villa Certosa, Sardegna) che, da un lato, dice di voler andare avanti con Draghi, dall’altro dice di no al governo con i 5s e, dall’altro ancora, fa sapere di non temere le urne.
Al netto della posizione della Meloni e di FdI, che urla tutti i giorni perché si voti al più presto, e della posizione del Pd che – a dispetto dei santi – chiede di mantenere l’attuale formula di governo, cioè con i 5Stelle dentro, come se non fosse successo niente e si potesse andare avanti come prima (cioè, male, tra strappi, ricatti, ultimatum) mentre il centrodestra neppure si sogna di farlo, anche i gruppi centristi minori (Iv di Renzi, Azione di Calenda, +Europa di Bonino, Ipf di Di Maio, Noi con l’Italia di Lupi, l’Udc di Cesa, Vinciamo Italia di Toti e Quagliariello, etc etc) dicono di volere che Draghi resti al governo, ma con un Draghi bis che escluda i 5Stelle. Il premier, di fronte a questo conclamato caos, non potrebbe fare altro che dimettersi e tornare a fare quello che faceva prima, e cioè il ‘Cincinnato’.
Il Colle ha già in tasca il decreto di scioglimento per andare al voto il 2 ottobre
Ecco perché il Colle si sta ‘attrezzando’, in vista del – sempre più probabile – voto anticipato. Riscontrata l’impossibilità di dare vita ad altri governi e dato che sarebbe inutile ‘perder tempo’ (la legislatura, comunque, è agli sgoccioli: la scadenza naturale è fissata a inizio marzo 2023), eviterebbe di dare luogo a nuove consultazioni e ha già in tasca, pronto per l’uso, il decreto di scioglimento delle Camere. In un primo momento si era pensato, di fronte alle dimissioni di Draghi, di sciogliere le Camere la sera stessa del 20 luglio per votare il 25 settembre (al Viminale hanno bisogno di almeno 60 giorni per attivare tutte le procedure elettorali, causa il voto per gli italiani all’estero), ma ora – una volta scoperto che, quel giorno, è una delle feste ‘sacre’ per la comunità ebraica (trattasi dello Rosh Hashanà, una delle feste tradizionali del popolo ebraico e altre due ce ne sono dopo, dal 10 ottobre, Sukkot e Kippur…) – non resterebbe che una data sola, il 2 ottobre. In questo caso, il decreto di scioglimento delle Camere verrebbe ritardato di alcuni giorni, forse addirittura fino al 29 luglio, per rispettare i tempi.
Il governo dimissionario può far molto poco…
Nel frattempo, resterebbe in carica il governo, ma solo per il consueto “disbrigo degli affari correnti”. È evidente, in quest’ultimo caso, che il governo Draghi, pur se non formalmente ‘battuto’ davanti alle Camere e nel pieno del suo rapporto ‘fiduciario’, ma a quel punto realmente dimesso, non potrebbe fare altro che seguire l’ordinaria amministrazione. Per capirsi, niente ‘decretone’ di fine luglio con nuovi aiuti a famiglie e imprese, niente completamento delle riforme del fisco come della concorrenza, niente decreti attuativi o decreti delegati per completare gli obiettivi del PNRR (molti dei quali, a quel punto, fallirebbero) e una pura, semplice, tenuta in ordine dei conti pubblici, ma senza possibilità concreta e reale di approntare la nuova manovra di bilancio che, entro il 15 ottobre, va inviata a Bruxelles per la sua approvazione e poi convertita dalle Camere entro il 31 dicembre, pena l’esercizio provvisorio dei conti pubblici dello Stato. A cercare di recuperare, in corner, la manovra e tutto il resto ci dovrebbe pensare il nuovo governo uscito dal voto, ma dati i tempi tecnici (elezioni, proclamazione degli eletti, 20 giorni dal voto all’insediamento delle nuove Camere, formazione dei suoi organismi, dai presidenti ai gruppi alle commissioni, consultazioni per formare il nuovo governo e insediamento del medesimo…) si arriverebbe ad avere un governo nella ‘pienezza’ dei poteri non prima degli inizi di novembre, se pure, cioè sempre che tutto vada bene… Del resto, come spiegano esimi costituzionalisti, dal prof. Francesco Clementi, a Stefano Ceccanti, pur nella sua ‘doppia veste’ di deputato del Pd, “mancando il rapporto fiduciario con le Camere, che sarebbero, a quel punto, state sciolte, il governo non potrebbe discutere i suoi testi in Parlamento né potrebbe ricorrere alla fiducia”. Per l’Italia, insomma, un vero, totale, disastro.
La versione degli ‘ottimisti’ ad oltranza…
Proprio per tutti questi motivi, la contro-versione degli ‘ottimisti’ ad oltranza, e a dispetto dei santi, è che Draghi, pur di evitare di fare la figura dello “Schettino che abbandona la nave”, come gli viene ventilato da molti ambienti (Colle in testa), si acconcerebbe a un Draghi bis o, meglio ancora, a un Draghi Uno che resta tale, pur se dopo un (corposo) rimpasto per sostituire almeno metà della squadra e della delegazione dei 5Stelle che, o per scelta endogena (passaggio all’opposizione) o per scelta esogena (la volontà degli altri partiti, Lega-FI in testa a tutti, ma anche molti altri…), andrebbero a casa o, forse, all’appoggio esterno.
Draghi ‘colpito’ dall’appello dei mille sindaci
Da questo punto di vista, ieri, un barlume di speranza è arrivato da un appello dei sindaci di tutt’Italia che, partito da soli 11 sindaci (le ha raccolte il sindaco di Torino, Lo Russo, e il sindaco di Firenze, Nardella), ha visto le firme ‘lievitare’ prima a 400 e, poi, a mille, in modo bipartisan. Un appello che, spiega al Qn il sindaco di Pesaro, e coordinatore dei sindaci Pd, Matteo Ricci, ha “toccato le corde giuste, smosso la coscienza di Draghi e lo sta facendo pensare a cosa, davvero, è più utile fare, oggi, per il Paese”. Insomma, “Draghi ci starebbe ripensando”, ecco. Ma, altro punto fondamentale, dovrebbe prodursi, e in modo sostanziale, una scissione ‘corposa’, dentro i 5Stelle, che porti all’uscita dagli attuali gruppi del M5s (rimasti in 165 parlamentari, dopo la scissione di Di Maio, che già ne conta ben 63) di almeno 25-30 deputati, guidati dal capogruppo, Crippa, e almeno 10 senatori, o verso la stessa Ipf o verso il Misto per poi creare dei nuovi gruppi. Una scissione che, però, dovrebbe concretizzarsi a breve, cioè entro oggi, lunedì, con atti formali, sia alla Camera che al Senato, per dimostrare a Draghi che il grosso del Movimento (a quel punto si tratterebbe di quasi, o oltre, cento parlamentari) sta con lui e, dunque, al M5s di Conte-Grillo e dei loro pasdaran ne resterebbero meno di 100-120. Un ‘fatto politico’ evidente, forte, importante, che potrebbe ‘mettere in difficoltà’, in senso positivo, sia il centrodestra di governo (Lega-FI) che gli altri gruppi minori, oltre che, ovviamente, il Pd, ma soprattutto lo stesso Draghi che, a quel punto, deciderebbe di andare avanti per il bene del Paese oltre al fatto, evidente, che lo stesso premier potrebbe dire che si tratterebbe ‘solo’ di portare a compimento la legislatura, varare la manovra, completare le riforme in itinere, attuare il PNRR e poco altro, non foss’altro che le elezioni si terrebbero, in ogni caso, non oltre il marzo 2023. Cosa succederà, dunque? Oggi, lunedì 18 luglio, a soli due giorni dal ‘Giorno del Giudizio’, sarà un giorno importante. Se non quello decisivo…
I tre possibili scenari a partire da mercoledì
Gli scenari sono, comunque, sostanzialmente tre: 1) conferma delle dimissioni di Draghi, che diventano irrevocabili, con relativo scioglimento anticipato delle Camere e voto il 2 ottobre; 2) permanenza del governo Draghi, ma in questo caso, con tre sottospecie: A) conferma dell’attuale governo, nella sua compagine attuale; B) un Draghi Uno con rimpasto, con il M5s fuori, all’opposizione o all’appoggio esterno, e gli altri partiti dentro; C) un Draghi due con maggioranza diversa, in tutto o in parte, dall’attuale, previe nuove consultazioni e nascita del nuovo governo; 3) un nuovo governo ‘tecnico’ o ‘ponte’ o ‘elettorale’ guidato da una personalità terza (Daniele Franco o Giuliano Amato) per fare la manovra e portare il Paese al voto a marzo 2023.