Magari mi sbaglio: anzi, metodologicamente, è sempre opportuno partire dall’ipotesi che sia il proprio atteggiamento a essere discutibile, troppo orientato a captare alcuni segnali e trasformarli in preoccupazioni. Ma – mi sia consentito – non si può nemmeno escludere che a sbagliarsi siano gli altri, coloro che a mio avviso con troppa leggerezza derubricano a faccende prive di importanza quelle che invece mi paiono avvisaglie da non sottovalutare.
Mi riferisco ai fatti dell’ultima settimana: qua e là, imitato e moltiplicato di piazza in piazza, nelle manifestazioni “antagoniste” è ricomparso il simbolo della P38, con le dita delle mani a mimare una sagoma inconfondibile. E poi, sabato, non è mancato il rogo della foto di un “nemico” dei manifestanti, il ministro Valditara, che peraltro era stato esposto come un bersaglio nei giorni precedenti.
Ecco, non nego di essere rimasto colpito – e non in positivo – dalla leggerezza con cui un noto e maturo sociologo ha liquidato il gesto della P38 come la “sublimazione di una frustrazione”, e dalla nonchalance perfino annoiata con cui un altro noto e maturo direttore di giornale ha messo in burla i programmi televisivi e i giornali che avevano dato risalto alla questione.
Non ne cito i nomi, perché – lo si è compreso, spero – non mi interessa la polemica personale diretta né la ricerca dell’asprezza. Ma trovo preoccupante questo “riflesso” volto a minimizzare, a ridurre la portata dei fatti che stanno sotto i nostri occhi. Se si teorizza la “rivolta sociale”, se si pratica in modo sistematico (nelle università, e ormai regolarmente da sinistra verso destra) la contrapposizione fisica nei confronti degli avversari, quasi ricercando il contatto e lo scontro, è perfino ovvio che l’”incidente” possa capitare.
Ecco, mi spaventa la sola ipotesi di quell’”incidente”. Ma mi spaventa anche di più la naturalezza con cui alcuni fingono di non comprendere dove si stia per arrivare.