Siamo a metà legislatura, e la sensazione è che il copione dei prossimi due anni-due anni e mezzo sia abbastanza scritto.
Da un lato della barricata, c’è un’opposizione non solo straperdente nel Paese, ma letteralmente fuori partita. Esattamente al contrario di come va ripetendo Elly Schlein, la sinistra dovrebbe iniziare a fare i conti con alcuni temi (sicurezza, immigrazione) su cui i sentimenti e le ragioni degli italiani sono fortissimi, e su cui invece i progressisti si ostinano a viaggiare contromano in autostrada.
Fino a quando non ci sarà una tangibile svolta su quelle materie, la coalizione di centrosinistra resterà elettoralmente “radioattiva”: e ogni escogitazione tattica (andare al voto separati o in coalizione) apparirà lunare.
Dall’altra parte, c’è un governo la cui leader è titolare di un’ondata di fiducia enorme e tangibile da parte dell’opinione pubblica: Giorgia Meloni è destinataria di una grande speranza, che coinvolge anche molti fra coloro che non l’hanno votata nel 2022. Peraltro un ciclo politico internazionale (Trump, Musk, Milei, presto la Germania, più avanti il Regno Unito) indica indubitabilmente una tendenza a destra degli elettori.
E però? E però, allo stato attuale, per una serie di ragioni (vincoli europei, vincoli istituzionali interni, classe dirigente e squadra ministeriale non sempre e non tutta da Champions League, diciamo così), il grande rischio è quello di ripetere – molti anni dopo – la parabola dei governi Berlusconi: grande consenso, grandi battaglie, ma realizzazioni inferiori alle attese.
Il pericolo che incombe sui prossimi 24-30 mesi è dunque in Italia quello di un grande stallo. La palude piace ovviamente ai perdenti, che vedono la possibilità di impantanare una partita politica per loro compromessa. Ma è la squadra in vantaggio che deve temerla.
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