Politica
L’Autonomia Differenziata è legge. Come funziona, cosa prevede
Di Giampiero Cinelli
Per alcuni è una grande insidia, per altri un’importante innovazione. Certamente la legge sull’Autonomia Differenziata delle Regioni, approvata definitivamente dalla Camera con 172 sì, 99 voti contrari e 1 astenuto, è un passaggio storico nella politica italiana per la sua potenzialità di incidere sul futuro della vita pubblica.
Le ragioni della riforma
Questa legge non viene dal nulla, ma in realtà definisce i criteri e implementa le disposizioni dell’articolo 116 (modificato nel 2001) della Costituzione, quello relativo alla possibilità di autonomia per le regioni a statuto ordinario. In sostanza i padri costituenti avevano già previsto degli ampi margini di manovra per gli enti territoriali, ma li avevano posti come eventualità e non come obbligo nel nostro ordinamento. Il punto, però, sta tutto sul modo in cui si decide di sistematizzare le autonomie. A seconda dei capisaldi, un modello può essere giudicato rispettoso dei principi e dei fondamentali diritti costituzionali, oppure lesivo degli stessi. In questa fattispecie, le opposizioni si sono schierate apertamente contro il ddl, mentre la maggioranza è andata avanti per la sua strada senza titubanze, su impulso del promotore Roberto Calderoli, Ministro per gli affari regionali e le autonomie.
Il contesto politico
In ogni caso va detto che attualmente 14 regioni sulle 15 aventi diritto (ovvero tutte tranne l’Abruzzo) hanno detto di essere interessate ad acquisire autonomia su almeno una materia. Sono 23 le materie su cui si può richiedere la piena responsabilità, 3 quelle ora ad esclusiva competenza dello Stato (come istruzione e tutela dell’ambiente e dei beni culturali) e 20 quelle concorrenti (tra cui sicurezza, commercio estero, lavoro, salute). Significa che anche le regioni rappresentate da partiti all’opposizione del governo, vedono di buon occhio l’Autonomia Differenziata.
Le questioni e l’iter
Ma appunto sulla questione un acceso dibattito è quasi scontato, vista la sua complessità e le sue implicazioni. Infatti ora che l’Autonomia è legge, siamo in realtà solo all’inizio dei giochi. Perché per permettere l’autonomia delle regioni è prima necessario definire i Livelli essenziali di prestazioni (Lep), cioè degli standard sotto cui la regione competente non può scendere. Per delineare i Lep è stata istituita una Cabina di regia formata dai ministri interessati e una Segreteria tecnica. Vanno poi individuiate le risorse finanziarie necessarie all’attuazione dei Lep. Su questo lavora un Comitato che stabilirà i cosiddetti fabbisogni standard. Concluso il lavoro sui Livelli essenziali di prestazioni, sarà necessario entro 45 giorni il parere delle Camere per poi adottare i Lep con decreto (forse un Dpcm).
La finanza pubblica nell’autonomia
Qualora ci si renda conto, che la Regione che ha ottenuto l’autonomia non sia in grado di garantire i Lep, oppure che l’autonomia di alcune regioni mette a repentaglio i Lep nelle altre regioni senza autonomia, lo Stato dovrà intervenire nell’amministrazione e impiegare ulteriori risorse proprie. Si tratta dei cosiddetti «maggiori oneri» a cui il testo fa riferimento. Chiaramente lo Stato vuole evitare tale situazione e auspica di determinare le autonomie a invarianza di spesa, come specificato nel disegno di legge. Ad ogni modo, le spese dello Stato e delle regioni potenzialmente autonome, andranno modulate coerentemente con gli obiettivi programmati di finanza pubblica. I costi e i fabbisogni connessi ai Lep, verranno rivalutati sulla base della spesa storica dello Stato in ogni regione nell’ultimo triennio. In virtù di quanto abbiamo detto, come strumento di compensazione, è contenuto nella legge il fondo di perequazione, che andrebbe a riequilibrare i divari finanziari. Tuttavia è stata criticata la poca chiarezza nelle regole di funzionamento del fondo e, per adesso, la scarsa dotazione.
Le procedure di attuazione
Vi sono 2 anni di tempo per determinare il denaro necessario ai Lep e circa 5 mesi per trovare l’accordo tra lo Stato e la Regione richiedente. L’accordo, valutato anche dalla Conferenza Unificata Stato-Regioni, dura 10 anni e la Regione può decidere di recedere con un preavviso di 12 mesi. Come accennato prima, lo Stato può tutelarsi decidendo di sostituirsi alla Regione, non solo in caso di problemi economici ma anche giuridici, o per grave rischio per la sicurezza pubblica o per inadempienza rispetto a trattati europei e internazionali. Alla fine, il Parlamento dovrà votare a maggioranza assoluta il testo di intesa tra Stato e Regione.