Politica
La riforma istituzionale, spiegata da Lorenzo Castellani
Di Lorenzo Castellani
La riforma istituzionale proposta dal governo Meloni si fonda su un compromesso che ha il suo perno nel preservare il ruolo del Presidente della Repubblica. Un approccio che ha fatto muovere la riforma dalla formula semi-presidenziale, che avrebbe previsto una elezione diretta del Capo dello Stato, a quella del premierato. La proposta è a ben vedere piuttosto conservativa rispetto alle attese: il Presidente della Repubblica continuerà a nominare i ministri pur perdendo la facoltà di nomina del Presidente del Consiglio, non ci sarà un meccanismo di sfiducia costruttiva ma soltanto un reincarico automatico del premier dimissionario o di un altro parlamentare dello stesso schieramento. In definitiva, ciò che cambia è il consolidamento del sistema elettorale maggioritario, la nomina obbligata del leader della coalizione vincente come Presidente del Consiglio da parte del capo dello Stato, un meccanismo che disincentiva le crisi di governo e i “ribaltoni”, cioè i cambi di maggioranza, attraverso l’introduzione di un iter predeterminato. È quasi superfluo aggiungere che se una maggioranza si spacca per debolezza dei partiti o fratture interne agli stessi il meccanismo dell’incarico al premier dimissionario o ad altra personalità dello stesso schieramento non garantisce la sopravvivenza dell’esecutivo o della stessa maggioranza. Quest’ultima modifica è, appunto, un deterrente ma non altro.
La formula che si utilizza nella comunicazione anche da parte di questo governo è quella del “sindaco d’Italia”, ma in questo caso la rottura della fiducia tra premier e maggioranza non determina automaticamente lo scioglimento delle camere come accade invece al consiglio comunale. La riforma proposta dal centrodestra, che dovrà passare il lungo iter previsto dall’articolo 138 per essere approvata, suggerisce alcune considerazioni politiche. La prima è che dopo aver polemizzato per anni sul ruolo “troppo invasivo” del Presidente della Repubblica sulla formazione e i programmi del governo, i partiti di destra sembrano essersi arresi. Non ci sarà alcuna “scelta del popolo” nell’elezione del Capo dello Stato. Certo con il premierato il Quirinale dovrebbe avere meno influenza sulla formazione dei governi, ma è evidente che l’arma più affilata sul piano costituzionale, quella del semipresidenzialismo, è stata riposta forse per sempre. Un gesto che denota sensibilità verso la figura del Capo dello Stato, oramai perno della stabilità politica italiana soprattutto dopo la surrettizia “riforma istituzionale implicita” che ha portato alla rielezione di Napolitano e Mattarella. C’è poi un secondo elemento che è alla base della riforma e attiene alla legittimazione politica. I governi italiani sono sempre deboli, anche quando c’è una maggioranza omogenea, proprio perché dipendenti da partiti deboli in un paese intrappolato tra vincoli esterni e poteri di veto interni.
Il rischio della disgregazione in Parlamento è sempre presente, anche dopo una vittoria elettorale netta. Il premierato potrebbe mettere maggiormente a riparo i vincitori da questa sempre presente instabilità pur non introducendo meccanismi di stabilizzazione particolarmente forti. Inoltre, esso creerebbe una diarchia coerente: il presidente della Repubblica eletto dal parlamento, il primo ministro eletto dal popolo. Ciò garantirebbe, in caso di vittoria, una legittimazione sovrana più piena di quanto non sia oggi per il Presidente del Consiglio. Si tratterebbe, insomma, di una formula di “governo rafforzato” che Meloni potrà far valere di fronte ad elettori sempre alla ricerca di un leader forte.
Per quanto concerne infine le prospettive politiche, ad oggi non sono molto elevate le probabilità che la riforma entri in vigore. Non c’è una maggioranza di due terzi in Parlamento affinché la riforma costituzionale venga approvata senza essere sottoposta a referendum. Dunque la legge proposta dal governo sarà approvata a maggioranza e poi ci sarà un referendum costituzionale. Come noto, in Italia è molto difficile che una riforma costituzionale venga approvata col voto popolare attraverso referendum dunque le probabilità che il premierato trovi attuazione reale non sono altissime. Molto del destino della riforma dipenderà dal consenso elettorale dell’attuale maggioranza nei prossimi anni e dalla stabilità della stessa. Più questi elementi saranno solidi, più saranno le possibilità di successo nel voto referendario.
Lorenzo Castellani, Docente di Storia delle istituzioni politiche alla Luiss Guido Carli