Esteri
Il massacro di Bucha e le reazioni degli europei
Di Beatrice Telesio
La scorsa è stata la settimana del massacro di Bucha, cittadina nei sobborghi nord-occidentali di Kiev tornata sotto il controllo del governo ucraino circa un mese dopo esser stata occupata dalle truppe russe.
Le immagini che hanno fatto il giro del mondo documentano svariate vittime civili – oltre trecento secondo le autorità locali. Come avviene in ogni conflitto, la strage rischia di non essere un caso isolato ma di replicarsi in altri punti dell’Ucraina.
L’eccidio ha ricevuto ampia copertura mediatica da parte dei media occidentali: non solo per documentarne l’orrore, quanto per tenere alta l’attenzione degli europei e mettere pressione ai governi del continente. Di certo non quello di Mosca, che per bocca del ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha subito parlato di “provocatoria messinscena anti-russa”. Discorso opposto per gli esecutivi dei paesi Ue.
Di fronte a potenziali crimini di guerra, difatti, le capitali del Vecchio Continente sono costrette a prendere in considerazione proposte finora accantonate perché considerate troppo radicali o troppo onerose. Come l’embargo su carbone, petrolio e gas russi.
Sono le aspettative dell’Ucraina e degli Stati Uniti: la prima perché non può pensare di sopravvivere alla guerra senza il supporto esterno degli europei; i secondi invece per favorire il disaccoppiamento della Russia dal sistema occidentale. Sotto ai riflettori ci sono i pesi massimi dell’Ue: Germania, Francia e Italia – con Parigi e Roma sempre più favorevoli a intervenire in maniera punitiva sugli acquisti di idrocarburi dalla Federazione russa.
In questo contesto, la Commissione Europea ha subito proposto agli Stati membri di approvare un nuovo pacchetto di sanzioni (il quinto dall’inizio della crisi) che blocca gli acquisti di carbone russo. La più restia ad avallare la stretta è stata Berlino, che ha chiesto e ottenuto un periodo di uscita dai rapporti in corso di quattro mesi dopo aver reclamato dei chiarimenti sui contratti in essere di combustibile fossile.
Il governo tedesco ha poi promesso di fare a meno dell’oro nero della Russia entro fine anno, consapevole che sul fronte energetico rischia di finire isolato. Mentre appare del tutto improbabile l’embargo sul gas. Lo ha spiegato bene il presidente della Repubblica Federale Frank-Walter Steinmeier: il gasdotto Nord Stream 2 che unisce Germania e Russia via Mar Baltico è stato un errore, ma rinunciare al gas farebbe più male ai tedeschi che ai russi.
Steinmeier è stato molto criticato per queste parole, che pure appaiono dolorosamente ineccepibili. Berlino non può rinunciare in un baleno al gas della Russia. Non perché rimarrebbe al freddo, ma perché la sua industria si fermerebbe. E l’industria è il collante sociale che tiene insieme la nazione tedesca – visto che quasi la metà del pil germanico deriva dall’export. E i tedeschi esportano tecnologia, non grano, senza i cui proventi non sono in grado di foraggiare il loro oneroso stato sociale.
Così, vendendo combustibili fossili alla Germania, Mosca si è fatta una sorta di polizza assicurativa. Ha puntato sulla fragilità strategica del paese europeo più influente ma anche più dipendente dalle esportazioni. È vero che il compratore ha più influenza del venditore, ma in questo caso anche la Germania è un venditore.
Il Cremlino deve aver contato anche su questo fattore per decidere di invadere l’Ucraina: sapeva che se gli europei avessero tagliato il gas avrebbe rischiato di finire a gambe all’aria, ma contava anche che i tedeschi avrebbero chiesto tempo (forse anni) per slacciarsi dai suoi idrocarburi. Il tempo che serve a Putin per ottenere una qualche forma di vittoria su Kiev. E per trovare al suo gas mercati alternativi in Asia.
Emblematico, infine, il fatto che la strage di Bucha sia stata completamente assente dal punto sulla guerra d’Ucraina del consigliere per la sicurezza nazionale degli Usa, Jake Sullivan, di lunedì della scorsa settimana. L’alto funzionario dell’amministrazione Biden ha affrontato l’eccidio soltanto perché incalzato dalle domande dei giornalisti.
È il segno che Washington non vuole darvi centralità. Sullivan ha spiegato che la strage non incontra per il momento la definizione di “genocidio”, contrariamente a quanto affermano le autorità ucraine. Gli americani non hanno neppure visto un “livello sistematico di privazione della vita del popolo ucraino”. Hanno già stabilito che i russi hanno commesso crimini di guerra e dichiarato di aver accumulato prove in tal senso.
Ma per arrivare alla qualifica del genocidio ci vorrà del tempo. Oltre a un approccio tecnico, preciso, visibilmente mirato a togliere enfasi al fatto, a non permettergli di trascinare il processo decisionale. Gli Usa avrebbero potuto cavalcare Bucha e non lo hanno fatto: hanno già dato del criminale di guerra a Putin, ma per il momento non sembrano voler andare oltre.
Il relativo disinteresse americano a spendersi seriamente per imporre la fine delle ostilità in Ucraina alimenta il dramma personale del presidente Volodymyr Zelensky e del suo popolo, consapevoli di non poter sopravvivere all’urto russo senza un intervento risolutore proveniente dall’esterno.
C’è chi ha paragonato Zelensky a Winston Churchill nell’ora più buia del conflitto fra l’impero britannico e la Germania nazista, ma probabilmente lo statista inglese a cui più assomiglia è Enrico V alla vigilia della battaglia di Azincourt contro la temutissima cavalleria francese dell’epoca.
Proprio come il giovane monarca inglese anche il presidente ucraino si appresta ad affrontare lo scontro decisivo del conflitto, con i russi in procinto di scatenare l’assalto contro il sud-est dell’Ucraina dopo essersi ritirati dall’area di Kiev.