Politica

Il ‘giorno del giudizio’ è più vicino. Draghi non intende cedere, i partiti fanno solo confusione

16
Luglio 2022
Di Ettore Maria Colombo

Il primo giorno, su cinque, che divide la crisi di governo, e la crisi della Politica italiana, dal “Doomsday” (Giorno del Giudizio Universale in inglese) cioè dalle comunicazioni che il premier, Mario Draghi, terrà mercoledì 20 luglio, prima al Senato (mattina) e poi alla Camera (pomeriggio), inizia male e finisce peggio. Lega-FI iniziano la giornata marciando e colpendo uniti: no a un governo – questo o uno nuovo, Draghi 1 o bis – con i 5Stelle e, aggiungono, “non temiamo il voto”. Anzi, sembrano auspicarlo, specie Salvini.

I centristi, da Iv ad Azione, dicono la stessa cosa: no al governo con i 5Stelle, sì a un Draghi bis, ma non vogliono andare a votare, questo proprio no. Solo il Pd tiene botta (“teniamo in vita il governo, ma come è adesso, con l’M5s”), sulla linea Colle, ma le voci di chi (Stefano Bonaccini, Matteo Ricci, che paragona l’M5s di Conte ai “gilet gialli”) vuole rompere l’alleanza, alle Politiche, con il partito che, di fatto, ha fatto cadere Draghi si fanno sempre più consistenti e lo stesso Letta confida ai suoi: “Non potremo far finta di niente. La scelta del M5s ci divide”, inteso come futuro.  

Poi il Pd attacca Lega e FI perché, annusata l’aria, stanno giocando di sponda con quella FdI che, invece, il voto lo chiede subito, a gran voce e che con Meloni esulta: “Dubito la crisi rientrerà”. Persino uno ottimista di natura, Bruno Tabacci, sottosegretario molto vicino a Draghi, dal congresso del Psi di Nencini e Maraio, dice: “Se queste sono le premesse, la legislatura si chiude”.

Di Maio, che continua a chiedere di andare avanti con Draghi, ma senza i suoi ex compagni di partito, non si limita ad attaccare Conte, ma dice: “Se Conte ritira i ministri, è la fine del governo”. Ecco, i 5s. Tra una riunione e l’altra del Consiglio nazionale, si scopre che Conte ha chiesto, pur avendolo poi smentito, ai tre ministri di ritirarsi dal governo. I tre (D’Incà, Patuanelli, Dadone) hanno risposto picche, ma per ora non intendono uscire dal M5s. Molti parlamentari, però, sì.

Si parla di una scissione, a brevissimo, assai corposa di 30 deputati e 10 senatori pronti a passare, armi e bagagli, nelle fila di Ipf. Basterà, a Draghi? No. “Vuole che, nel governo, con tutti gli altri, resti il M5s col simbolo presentato alle Politiche 2018”, cioè quello di Conte e Grillo. Senza, se ne va. E’ descritto, dai suoi, “fermissimo, determinato. Non intende cedere a ricatti, veti, ultimatum”. Che siano di Conte o di Salvini poco importa, ormai.

Non una, ennesima, scissione, pur se “corposa”, dei 5Stelle, può fargli cambiare idea. Chi ci spera creda che possa farlo, invece, il ‘vincolo esterno’. La Russia ha parlato, attaccando Draghi, nella Ue sudano freddo; Biden “segue l’evoluzione della crisi” e pure in casa Nato sono molto preoccupati. Basterà, per convincere Draghi? C’è chi lo spera.

E dunque, cosa succederà mercoledì prossimo? Qui entra in gioco l’ultimo, e maggiore, attore sulla scena, il Colle, ‘prestatore di ultima istanza’.

Stabilito che, da qui a mercoledì, il Colle ‘tace’, cioè esce di scena, perché spetta alle forze politiche, e al premier, parlare, discutere e posizionarsi, la sensazione più diffusa, negli ambienti parlamentari e soprattutto in quelli che, con il Colle, ci parlano, è che, almeno a stare a ieri sera, le dimissioni di Draghi da ‘revocabili’ diventerebbero “irrevocabili”. Il premier, cioè, dopo aver parlato e una volta concluso il dibattito parlamentare di tutti i gruppi, eviterebbe di chiedere di passare al voto (tecnicamente, si chiama voto di mozioni parlamentari sulle comunicazioni) e salirebbe al Colle per confermare di non volere andar avanti.

In quel caso, si fa notare negli stessi ambienti, dato che “non esiste un solo caso di dimissioni di un premier rifiutate per due volte”, non solo il Capo dello Stato ne prenderebbe atto, ma, pur se a malincuore, scioglierebbe subito le Camere. E qui scatterebbe la prima, pesante, precipitazione degli eventi.

Il Quirinale non darebbe luogo, infatti, a nuove consultazioni per cercare di formare un nuovo governo che sarebbe, di fatto, un ‘governicchio’, tecnico o elettorale o di scopo, guidato da Franco, Amato o chi per lui, ma – dato che la legislatura si avvia, comunque, alla sua fine naturale (marzo 2023), firmerebbe, la sera stessa del 20 luglio, il decreto di scioglimento. Vuol dire accelerare tutte le pratiche (per indire i comizi elettori servono, come minimo, 60 giorni) e votare il più presto possibile: il 2 ottobre o, meglio ancora, il 25 settembre.

Draghi resterebbe in carica per il “disbrigo degli affari correnti” ma, dato che non ha mai ricevuto un voto di sfiducia, potrebbe prendere alcune decisioni importanti. Il ‘decretone’ di fine luglio, già in lavorazione, su prezzi energetici calmierati, soldi a famiglie e imprese (che dovrebbe essere convertito, però, dalle Camere, sciolte ma riconvocabili ad hoc) e, anche, la preparazione della manovra economica (che va inviata a Bruxelles entro il 15 ottobre), anche se, dopo il voto, il nuovo governo ‘politico’ uscito dalle urne, cui Draghi passerebbe, quando sarà, la ‘campanella’ (con elezioni il 25 settembre e 20 giorni per insediare le nuove Camere, consultazioni, non prima di metà/fine ottobre), potrebbe cambiare in tutto o in parte, volendo.

Uno scenario da corsa contro il tempo, oltre che da brividi. Il ‘giorno del Giudizio’ è più vicino.

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