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Guerre: Ucraina, l’irruzione del terrorismo; Gaza, frattura all’Onu tra Usa e Israele

27
Marzo 2024
Di Giampiero Gramaglia

Il terrorismo integralista fa un’irruzione devastante sul fronte russo-ucraino e desta allarmi in tutta l’Europa nella settimana di Pasqua. All’Onu, si consuma una frattura senza precedenti tra Usa e Israele: l’astensione statunitense nel Consiglio di Sicurezza fa approvare una risoluzione che chiede il cessate-il-fuoco immediato nella Striscia di Gaza e la liberazione di tutti gli ostaggi, in cambio della scarcerazione di detenuti palestinesi.

Difficile prevedere l’evoluzione a breve e medio termine dei due conflitti, l’invasione dell’Ucraina e la guerra nella Striscia, alla luce di quanto avvenuto. I russi, che accusano Kiev di essere collusa con i terroristi integralisti, intensificano i bombardamenti, specie sulle installazioni energetiche.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu non intende rispettare l’ingiunzione dell’Onu e cancella la visita a Washington di una delegazione per discutere la situazione a Rafah, nel sud della Striscia. Ma le trattative tra Israele e Hamas, mediate da Qatar, Egitto ed Usa, starebbero facendo progressi: una tregua sarebbe imminente, non imposta dal Palazzo di Vetro, ma concordata nei negoziati.

Guerre: Ucraina, sussulti sui fronti interni, dopo l’attacco terroristico
L’attacco terroristico di venerdì sera 15 marzo in una sala concerti alla periferia di Mosca, affollata di migliaia di persone, fa almeno 140 vittime, fra cui tre bambini, e 180 feriti. Il presidente russo Vladimir Putin ne attribuisce inizialmente la responsabilità all’Ucraina, ma poi, sulla scorta di dati di fatto e informazioni di intelligence, riconosce la matrice dell’Isis K, che ha del resto rivendicato l’azione, ma continua a evocare complicità ucraine.

Kiev nega ogni complicità e ridicolizza le affermazioni russe Gli attentatori vengono intercettati e catturati mentre apparentemente cercavano di profittare di un varco per raggiungere l’Ucraina, lungo una frontiera – si osserva – presidiata dalle forze d’invasione russe, non dai doganieri ucraini.

Ancora più inverosimile della matrice ucraina appare la tesi di una provocazione russa, per suscitare nel Paese un’ondata di indignazione anti-ucraina e infondere nella popolazione nuove motivazioni patriottiche. Inverosimile, in primo luogo, perché l’attentato non giova all’immagine di Putin e ne intacca l’aura di uomo capace di proteggere la Russia dai suoi nemici.

Zelensky, dal canto suo, deve porre riparo al tentativo di numerosi giovani di sottrarsi alla chiamata alle armi e cerca di accelerare con ingenti finanziamenti pubblici lo sviluppo di fabbriche di armi e munizioni autoctone, sperando che bastino a ricacciare indietro i russi o, almeno, a fermarli. Kiev vive l’ennesimo repulisti governativo anti-corruzione, con la destituzione di Oleksiy Danilov, consigliere per la sicurezza nazionale.

I due popoli, il russo e l’ucraino, appaiono entrambi provati dal conflitto e stanchi di combattere. Uno studio per il Centro Studi federalisti di Torino del professore Antonio Padoa Schioppa ipotizza una tregua: il tempo della trattativa, forse, s’avvicina, anche se la retorica resta bellica: Mosca dice “Combattiamo per i nostri interessi vitali”; Kiev denuncia comportamenti “malati e cinici”.

All’interno, Putin è criticato per una politica di sicurezza rivolta contro oppositori e gruppi Lgbtq+, che lascia, però, porose le frontiere esterne. Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba fa eco alle parole controverse del presidente francese Emmanuel Macron e avverte: “Sebbene l’Ucraina non abbia mai chiesto truppe da combattimento europee sul terreno”, i leader europei devono abituarsi all’idea che “questo potrebbe succedere”.

Guerre: Russia, la dinamica dell’attacco, gli interrogativi e l’impatto su conflitto e Occidente
La strage della sera del 13 continua a porre interrogativi senza risposta ed è uno smacco per Putin, che, meno di una settimana dopo la rielezione plebiscitaria, deve constatare l’esistenza d’inefficienze negli apparati di sicurezza russi, che pure erano stati messi sull’avviso dagli 007 Usa – erano anche stati diramati avvisi ai cittadini statunitensi perché evitassero i luoghi affollati -.

Il teatro dell’attacco è il Crocus Auditorium, dove si esibivano i Picnic, una band molto popolare: un commando di terroristi – i quattro arrestati sono tutti tagiki, prezzolati più che arruolati, mercenari del terrore per 5000 euro – è entrato sparando all’impazzata sul pubblico, nella hall, poi in platea e nella galleria. Una scena che ricorda l’attacco al Bataclan di Parigi il 13 novembre 2015.

Intercettati in fuga a circa 400 chilometri dalla capitale russa, presi vivi, ma malmenati e malridotti, i quattro parlano, confessano, “confermano la pista ucraina”: dichiarazioni non spontanee, la cui attendibilità va verificata. L’intelligence russa insiste sulla chiamata in causa dell’Ucraina di Putin; estende le accuse, senza però darne prove, a Stati Uniti e Gran Bretagna; afferma che gli attentatori “sono stati addestrati da Kiev in Medio Oriente”, basandosi sugli interrogatori dei tagiki, che compaiono in tribunale pestati a sangue.

Da Kiev, replica il consigliere di Zelensky Mykhailo Podolyak: “La ‘pista ucraina’ suscita, anche nei Paesi neutrali, totale incredulità”. Il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, l’alleato più fedele di Putin, stavolta lo contraddice: afferma che i terroristi volevano fuggire in Bielorussia, non in Ucraina. Dal canto suo, l’Isis, dopo la rivendicazione del massacro, pubblica video dell’attacco sui suoi siti, corroborando le proprie affermazioni.

Che Kiev c’entri o meno – l’intelligence occidentale lo esclude -, la Russia, nelle notti successive, scatena attacchi senza precedenti da oltre un anno sulle installazioni energetiche ucraine, usando – pare – anche ordigni ipersonici e di fabbricazione nord-coreana: ci sono danni, vittime, feriti, pure nella capitale. Tra sabato e domenica, un cruise entra per breve tempo nello spazio aereo polacco, suscitando allarme e proteste.

L’Ucraina accusa il colpo: è a corto di difese contraeree, come il presidente Zelensky aveva detto, intervenendo al Vertice europeo della scorsa settimana; e manca anche di uomini e di munizioni. E l’Occidente non supera lo stallo degli aiuti da Washington, dove i repubblicani continuano a tenere bloccate per mene elettorali le misure proposte dall’Amministrazione Biden, La retorica americana ripete “Non permetteremo che l’Ucraina soccomba”, ma alle parole non seguono i fatti.

Né l’Ue può sostituirsi agli Usa. Al Vertice europeo, s’intrecciano istanze contrastanti: la vicinanza all’Ucraina e il desiderio di non esacerbare le opinioni pubbliche. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz propone di utilizzare i profitti derivanti dai beni russi congelati per acquistare armi e munizioni destinate all’Ucraina: “Putin sbaglia i calcoli se crede che non vorremo sostenere l’Ucraina per tutto il tempo necessario… L’utilizzo dei profitti degli beni russi congelati è un tassello piccolo ma importante”.

Il capo della diplomazia europea Josep Borrell rileva un consenso generale sulla proposta tedesca, ma aggiunge: “Non bisogna impaurire la gente inutilmente, la guerra in Europa non è imminente”.  Borrell si riferisce alle sortite di Macron sull’invio di truppe della Nato in Ucraina, che hanno indubbiamente avvicinato, nella percezione pubblica, la prospettiva di coinvolgimento nel conflitto. Al quotidiano spagnolo El Paìs il premier ucraino Denys Shmyhal dichiara: “Agli alleati chiediamo addestratori”. M anche su questo scenario, il Cremlino avvisa: l’invio di contingenti militari Nato in Ucraina può portare a “conseguenze molto negative, persino irreparabili”.

Guerre: Medio Oriente, frattura fra Usa e Israele, Onu vara mozione, intesa possibile
In Medio Oriente, il fatto nuovo più rilevante è diplomatico, non militare: il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato, lunedì 25 marzo, una risoluzione che chiede il cessate-il-fuoco a Gaza. Dopo 170 giorni di guerra e ben oltre 30 mila vittime, ì la prima volta che l’Onu produce un testo giuridicamente vincolante su questo conflitto.

Il documento ha ottenuto 14 voti a favore e l’astensione degli Usa, che in passato avevano sempre posto il veto in casi del genere: si “chiede un cessate-il-fuoco immediato per il Ramadan rispettato da tutte le parti che conduca ad un cessate-il-fuoco durevole e sostenibile e il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi, nonché la garanzia dell’accesso umanitario per far fronte alle loro esigenze mediche e umanitarie”.

L’approvazione della risoluzione è stata salutata in aula con un lungo applauso: pone fine alla serie di ripicche tra Usa, da una parte, e Russia e Cina, dall’altra, che avevano reciprocamente posto veti ai documenti presentati sulla crisi mediorientale. Soddisfazione è stata espressa anche da Hamas, che ora è pronto a uno “scambio di prigionieri”, mettendo ostaggi e detenuti sullo stesso piano.

Ma l’astensione degli Stati Uniti incrina ulteriormente i rapporti tra Netanyahu e il presidente Usa Joe Biden, contrariato dalle scelte del premier e contrario all’attacco su Rafah. Anche Macron dice a Netanyahu che entrare a Rafah sarebbe “un crimine di guerra”.

Israele, che non prende in considerazione il cessate-il-fuoco ordinato dall’Onu, ritira la delegazione che era a Washington proprio per discutere di Rafah; e dice di avere pure ritirato la delegazione che partecipa ai negoziati in Qatar – affermazione però smentita in loro: rappresentanti di Israele sono ancora lì -. Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca John Kirby si dice “molto deluso” dall’atteggiamento israeliano e spiega l’astensione all’Onu: “Siamo chiari e coerenti nel nostro sostegno a un cessate-il-fuoco come parte di un accordo per la liberazione degli ostaggi… Avremmo voluto sostenere la risoluzione, ma la versione finale non ha un passaggio che noi pensiamo sia essenziale, cioè la condanna di Hamas… Dunque, non potevamo approvarla…”.

Secondo il segretario di Stato Usa Antony Blinken, che ha concluso l’ennesima – apparentemente inutile – missione in Medio Oriente, i negoziati tra Israele e Hamas, mediati da Qatar, Egitto e Usa, si stanno “avvicinando a un accordo”, che prevederebbe la liberazione di una quarantina di ostaggi – ne resterebbero meno di cento nelle mani di Hamas – in cambio del rilascio di un numero tra 700 e 1000 di detenuti palestinesi.

Nel nuovo clima creato dal voto all’Onu, Netanyahu parla di proposte “ridicole” e “irrealistiche” ed esclude un ritiro delle forze israeliane da Gaza; anzi, insiste su necessità e imminenza di un’azione di terra a Rafah, dove oltre un milione di palestinesi in fuga dal nord della Striscia sono ammassati. Trattative diplomatiche e drammi umanitari fanno da sfondo agli sviluppi bellici, anche al confine tra Libano e Israele e nel Mar Rosso: il conflitto, innescato dagli attacchi terroristici del 7 ottobre, condotti da Hamas in territorio israeliano, con oltre 1200 vittime e la cattura di quasi 300 ostaggi, s’avvia al sesto mese e resta gravido di morti, orrori, tragedie e rischi di estensione.

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