Esteri

Guerre: MO, in bilico tra intesa e attacco; Ucraina, Putin s’insedia, complotto anti-Zelensky

08
Maggio 2024
Di Giampiero Gramaglia

Ecco un modo di negoziare spregiudicato: Israele lancia l’attacco su Rafah poche ore dopo l’annuncio di Hamas di aver accettato la proposta qataro-egiziana per il cessate-il-fuoco, prima ancora del ritorno al Cairo della delegazione israeliana che dovrebbe perfezionare l’intesa – molti punti restano aperti -. Non è ancora l’offensiva su larga scala preparata e paventata, ma la mossa è comunque sufficiente a mettere pressione sulle trattative, a rischio di compromettere un accordo che sembrava finalmente vicino.

Se il conflitto in Medio Oriente pare prossimo a una svolta – ma non sarebbe la prima volta che un’attesa del genere va delusa -, il fronte ucraino vive l’antitesi fra i due protagonisti: Vladimir Putin s’insedia, per la quinta volta, alla presidenza della Russia, sciorinando potenza e minacce, con esercitazioni nucleari condotte al confine con l’Ucraina; e, invece, Volodymyr Zelensky, presidente ucraino, sventa un complotto per ucciderlo ordito – dice – da Mosca.

Onu, G7, Ue, Nato, la diplomazia della pace è in stallo. Il presidente cinese Xi Jinping, che inizia da Parigi una visita in Europa, la prima dopo la pandemia, afferma genericamente l’intenzione di contribuire al superamento dei conflitti, ma non offre prospettive d’azione concrete. Accanto a lui, il presidente francese Emmanuel Macron torna a prospettare l’ipotesi di un intervento militare Nato in Ucraina, cioè di guerra con la Russia; mentre la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, non fa sconti al leader cinese sui fronti economici e commerciali. Per Politico, l’incontro tra Macron e Xi è quello “fra due imperatori sul precipizio di due guerre”.

Guerre: MO, Israele controlla valico con Egitto, ma prosegue negoziato
L’esercito israeliano prende il controllo del valico di Rafah tra la Striscia e l’Egitto e blocca di fatto, almeno per qualche tempo, l’arrivo a Gaza di aiuti umanitari, viveri, medicinali, carburante, quando già i palestinesi festeggiavano il sì di Hamas a una tregua di 42 giorni, eventualmente prorogabile, in cambio della liberazione di tutti gli ostaggi ancora vivi. Sono una trentina, ma il numero si assottiglia di giorno in giorno: un bombardamento israeliano avrebbe ucciso una donna, nelle more dell’intesa.

Per l’ennesima volta in sette mesi, l’Onu denuncia il rischio di “una catastrofe umanitaria”. Ma il governo e l’esercito israeliani non si arrestano e assumono il controllo del valico da cui transita gran parte degli aiuti umanitari. Condotta dai carri armati di una brigata corazzata, l’operazione fa – secondo fonti israeliane – una ventina di caduti fra i miliziani di Hamas, mentre continua lo stillicidio di vittime civili di raid e bombardamenti sul resto della Striscia – complessivamente, sono oltre 35 mila, soprattutto donne e bambini -.

Le tv israeliane mostrano la bandiera con la stella di Davide sventolare sul lato palestinese del valico: è la prima volta dal 2005, quando le truppe israeliano si ritirarono dalla Striscia, che esse ne controllano interamente le frontiere esterne.

L’Egitto teme che un attacco su larga scala a Rafah induca i palestinesi a cercare di riversarsi sul suo territorio e condanna l’azione israeliana, definendola “una pericolosa escalation”. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu parla di “passo importante” verso lo smantellamento di Hamas, che resta l’obiettivo dell’azione militare intrapresa da Israele l’8 ottobre, il giorno dopo gli attacchi terroristici in territorio israeliano che fecero circa 1200 vittime e portarono alla presa di oltre 250 ostaggi.

Gli israeliani hanno già dato istruzioni alla popolazione di Rafah, oltre un milione di persone, in gran parte evacuate dal Nord della Striscia, perché lascino l’area: un invito che suonerebbe beffa, se non fosse tragico, perché la stragrande maggioranza di quei palestinesi hanno già lasciato le loro abitazioni, nel frattempo distrutte o danneggiate, e non sanno dove andare, perché le tendopoli allestite non sono sufficienti ad accoglierli.

Per analisti occidentali, il governo israeliano vuole tenere aperta la partita negoziale, ma vuole anche mantenere la pressione militare su Hamas e sui palestinesi: e, così facendo, dà una caccia sanguinosa ai battaglioni di miliziani mimetizzati fra i civili.

Naturalmente, le cronache del conflitto restano fitte di episodi letali, non solo nella Striscia, ma anche al confine di Israele con il Libano e in Cisgiordania. Con un atto illiberale e d’intolleranza nei confronti della libertà d’informazione, Israele ordina la chiusura degli uffici di al Jazeera, la tv che più da vicino racconta la guerra a Gaza, e requisisce alcune installazioni dell’antenna qatarina.

Gli Stati Uniti continuano a premere su Israele perché non attacchi Rafah e accetti un’intesa per una tregua: dopo l’ennesima missione senza risultati tangibili del segretario di Stato Antony Blinken, è giunto nella regione il capo della Cia William Burns, anche lui già andato a vuoto più volte. S’è appreso che, la scorsa settimana, Washington aveva bloccato un carico di bombe da una tonnellata e altre munizioni per Israele, proprio in segno di preoccupazione per un’azione militare israeliana su larga scala nel Sud della Striscia, che potrebbe “fare drammaticamente salire il bilancio delle vittime del conflitto” – parole di un funzionario dell’Amministrazione Biden citate dai media Usa -. È la prima volta che accade dall’inizio della guerra.

Guerre: MO, Biden, moniti alla moderazione, ma sostegno a Israele
Gli Stati Uniti del presidente Biden continuano a mantenere un atteggiamento irrisoluto, che non sortisce risultati: invitano Netanyahu alla moderazione, ma confermano, nel contempo, sostegno a Israele. L’Amministrazione democratica viene contestata da giovani e sinistra, mentre nell’Unione si sviluppa un movimento senza precedenti di sostegno ai palestinesi.

Parlando sul Campidoglio di Washington, martedì, durante una cerimonia in memoria dell’Olocausto, il presidente Biden ha denunciato “una feroce crescita dell’anti-semitismo” negli Stati Uniti e in tutto il Mondo, sotto forma di atti di violenza e di discorsi dell’odio, dopo gli attacchi terroristici del 7 ottobre in territorio israeliano e la conseguente guerra scatenata nella Striscia di Gaza.

La condanna degli episodi di anti-semitismo da parte di Biden arriva quando, da settimane ormai, le università americane sono attraversate da manifestazioni di protesta pro-palestinesi: sit-in e villaggi di tende nei campus, lezioni sospese, edifici occupati, interventi della polizia per sgomberare gli atenei, migliaia di arresti – finisce il manette anche la candidata dei verdi alla Casa Bianca, Jill Stein -.

La guerra nella Striscia infiamma le Università più prestigiose: la Columbia di New York decide di cancellare la cerimonia di laurea principale per le proteste che da settimane agitano il campus – vi saranno solo cerimonie minori, in ciascuna delle 19 facoltà -. La decisione della Columbia, non isolata – altri Atenei hanno fatto scelte analoghe – aumenta l’imbarazzo dell’Amministrazione Biden di fronte alle manifestazioni degli studenti (in linea di massima, potenziali elettori democratici, che potrebbero disertare le urne il 5 novembre) e quindi l’urgenza di giungere a una tregua tra Israele e Hamas.

Bernie Sanders, il senatore del Vermont che contese la nomination a Hillary Clinton nel 2016 e a Joe Biden nel 2020, sostiene che le proteste contro Israele nei campus rischiano d’essere il Vietnam di Biden, facendo riferimento alle manifestazioni contro la guerra negli Anni 60. “Lyndon Johnson è stato un presidente molto, molto bravo. A livello nazionale ha portato avanti alcune importanti leggi – fra cui quelle contro la segregazione razziale, ndr -, ma scelse di non candidarsi nel ’68 proprio a causa dell’opposizione sul Vietnam”, ha ricordato Sanders alla Cnn. “Mi preoccupa molto che Biden si sia messo in una posizione in cui si sta alienando non solo i giovani, ma pure gran parte della base democratica”.

Guerre: Ucraina, Putin più forte, Zalensky sventa attentato
Sul fronte ucraino, le cronache militari riservano il consueto stillicidio di attacchi notturni russi con missili e droni sulle installazioni militari ed energetico/industriali ucraine e registrano modeste, ma significative, conquiste territoriali russe. Le forze di Kiev restano sulla difensiva e accusano carenze di uomini e di mezzi.

Ma gli eventi più significativi non sono militari. A Mosca, Putin s’insedia per la quinta volta alla presidenza, dopo la vittoria a valanga nelle elezioni del 17 marzo, e può perseguire – scrivono con parole analoghe Washington Post e New York Times – il suo disegno di forgiare una nuova Russia ultra-conservatrice, super-militarizzata e anti-occidentale, sfruttando l’invasione dell’Ucraina per trasformare il suo Paese e ricondurlo al rango di Super-Potenza, capace di contrastare l’ordine mondiale a guida Usa in un rinnovato equilibrio del terrore.

Leader russo già da un quarto di secolo e potenzialmente a vita, sicuro di restare al potere fino al 2030 – nessun leader occidentale e neppure il cinese Xi ha questa prospettiva -, senza tangibili minacce interne, Putin sfida l’Occidente che lo antagonizza in Ucraina e, ordinando manovre con armi nucleari tattiche, ricorda al Mondo i rischi d’un conflitto atomico.

A Kiev, invece, le autorità di sicurezza arrestano, con l’accusa di tradimento, due colonnelli ucraini presunti autori di un asserito complotto per assassinare il presidente Zelensky: mancano particolari sulla vicenda. È la prima volta – dicono le fonti ucraine – che Mosca riesce a reclutare agenti di così alto livello negli apparati di sicurezza ucraini.

Naturalmente, il conflitto continua a portarsi dietro episodi orrendi. Human Rights Watch, un’organizzazione non governativa per il rispetto dei diritti umani, riferisce, in un rapporto d’inchiesta, che negli ultimi cinque mesi l’esercito russo ha messo a morte “a sangue freddo” almeno 15 soldati ucraini dopo che questi s’erano arresi. I fatti accertati sarebbero tutti palesi violazioni della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra.

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