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2024: l’anno elettorale che ha ridefinito gli equilibri globali
Di Beatrice Telesio di Toritto
Il 2024 è stato un anno senza precedenti sul fronte elettorale: in tutto il mondo si sono svolte più di 70 elezioni tra parlamentari, presidenziali e locali, coinvolgendo oltre due miliardi di elettori in più di 50 paesi. Questo contesto ha reso il 2024 uno degli anni a più alta densità elettorale della storia contemporanea, con eventi politici che hanno influenzato non solo gli equilibri interni dei singoli Stati ma anche le dinamiche globali.
Ciò che emerge con maggiore chiarezza, almeno per quanto riguarda il contesto europeo, è un netto spostamento a destra e verso partiti anti-sistema. Questo fenomeno si è manifestato attraverso il successo di forze politiche che hanno saputo intercettare il malcontento crescente verso i partiti tradizionali, spesso percepiti come inadeguati ad affrontare le sfide economiche, sociali e identitarie che attraversano il continente.
Non mancano tuttavia le eccezioni: in Spagna e Portogallo, ad esempio, i partiti di centro-sinistra hanno dimostrato una sorprendente resilienza, mantenendo il loro ruolo centrale grazie a politiche di stabilità e moderazione. Analogamente, nei Paesi Bassi e in Germania, alcune forze ecologiste sono riuscite a contenere l’avanzata della destra grazie a un elettorato più sensibile alle questioni climatiche e sociali.
Di fronte a questa avanzata delle nuove forze politiche, la reazione dei partiti tradizionali è stata spesso incerta e frammentaria. In molti casi, si è cercato di contenere l’ascesa delle destre e dei movimenti anti-sistema attraverso coalizioni inedite e compromessi politici che, tuttavia, hanno spesso evidenziato più debolezza che strategia. Un esempio ne è stata la Francia, dove le forze tradizionali hanno tentato di arginare il successo del Rassemblement National di Marine Le Pen attraverso un fronte repubblicano tra partiti di centro e sinistra. Il risultato generale è stato un recupero del consenso solo parziale e fragile, con molti elettori che continuano a percepire queste formazioni come distanti dalle loro esigenze reali.
Parallelamente, si è osservato un significativo calo della spinta politica favorevole all’uscita dall’Euro. I partiti euroscettici, pur mantenendo una forte retorica critica nei confronti delle istituzioni europee, hanno gradualmente abbandonato posizioni più radicali come l’idea di un abbandono della moneta unica, preferendo invece concentrare l’attenzione su temi legati alla sovranità nazionale – come nel caso del Partito della Lega in Italia. Questo aspetto è emerso con particolare evidenza nell’Europa orientale e settentrionale, dove la richiesta di un maggiore controllo sui confini, sulle politiche migratorie e, più in generale, sulla capacità decisionale nazionale ha trovato ampia risonanza tra gli elettori.
In questo contesto, sono risultate emblematiche le frequenti sospensioni del trattato di Schengen, spesso motivate dalla necessità di gestire crisi migratorie o percezioni crescenti di insicurezza interna. Emblematiche in tal senso le scelte di Germania, Austria, Francia e Ungheria di reintrodurre controlli alle frontiere: la Germania ai confini con Polonia e Repubblica Ceca per gestire i flussi migratori, l’Austria lungo il Brennero con l’Italia, la Francia con Belgio e Spagna per motivi di sicurezza interna, e l’Ungheria lungo la rotta balcanica per riaffermare la sovranità nazionale. Queste decisioni hanno evidenziato una crescente tendenza verso un’Europa a geometria variabile, dove l’integrazione appare sempre più messa alla prova da pressioni interne ed esterne. La sospensione temporanea della libera circolazione, infatti, non è soltanto una risposta pragmatica a problemi immediati ma rappresenta anche un segnale politico: l’affermazione di una volontà nazionale che, in molti casi, supera il valore simbolico e pratico dell’unità europea.
In Asia, il quadro politico si è presentato più frammentato ma non meno significativo. In India, Narendra Modi ha consolidato (seppur con una maggiornaza meno spiccata) la sua leadership grazie a una retorica nazionalista e alla promessa di uno sviluppo economico ambizioso, mentre a Taiwan le elezioni presidenziali sono state fortemente influenzate dalle tensioni con la Cina, con una chiara affermazione delle forze favorevoli a una linea indipendentista. Nel Sud-est asiatico, invece, la fragilità politica ha favorito la crescita di movimenti populisti e autoritari, come si è visto nelle Filippine e in Myanmar.
L’Africa ha vissuto un anno elettorale segnato da cambiamenti e instabilità. In paesi chiave come Nigeria e Senegal, il malcontento delle giovani generazioni e l’aggravarsi delle crisi economiche hanno indebolito i partiti tradizionali, dando spazio a nuove forze emergenti. Nel Sahel, invece, la situazione politica è stata pesantemente condizionata dai colpi di stato militari, che hanno di fatto impedito processi elettorali liberi e hanno alimentato sentimenti anti-occidentali.
Negli Stati Uniti, le elezioni presidenziali di novembre sono state caratterizzate da una polarizzazione senza precedenti. Le questioni economiche e sociali (soprattutto quelle etniche e di genere), la gestione delle crisi globali e il dibattito sull’immigrazione hanno dominato la campagna elettorale, riflettendo una spaccatura profonda all’interno del paese. Da un lato, i repubblicani hanno cavalcato temi identitari e populisti, mentre i democratici hanno cercato di posizionarsi come un argine alla radicalizzazione politica, con risultati però non soddisfacenti.
Le crisi internazionali, in particolare quella in Ucraina e in Medio Oriente, hanno avuto un impatto determinante sui processi elettorali. In Europa, il conflitto ucraino ha alimentato un dibattito serrato sulla sicurezza energetica e militare, mentre in Africa, le conseguenze economiche, come la crisi alimentare legata al blocco delle esportazioni di cereali, hanno generato tensioni sociali e politiche. In Asia, infine, la rivalità tra Stati Uniti, Cina e Russia ha influenzato le scelte strategiche e politiche di numerosi paesi.
Un altro aspetto centrale del 2024 è stato il ruolo del Global South. Nei paesi dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia, si sono rafforzate dinamiche di contestazione nei confronti delle istituzioni globali occidentali, dando vita a nuovi movimenti politici sovranisti e indipendentisti. Questo fenomeno riflette non solo una volontà di emancipazione economica, ma anche una crescente disillusione nei confronti dei modelli imposti dalle potenze tradizionali.
A livello globale, ciò che ha colpito maggiormente è la marcata volatilità delle preferenze elettorali, assai più accentuata rispetto al passato. La crisi dei partiti tradizionali, incapaci di rispondere alle sfide contemporanee, ha lasciato spazio a nuove forze spesso populiste o anti-sistema. A questo si aggiunge l’influenza pervasiva dei social media e della disinformazione, che hanno reso l’elettorato più “volatile” e meno prevedibile – come dimostrato anche con la schiacciante vittoria di Trump, non prevista da nessun sondaggio. La polarizzazione culturale, unita all’instabilità economica e alle tensioni geopolitiche, ha reso le elezioni del 2024 un riflesso delle profonde trasformazioni che il mondo sta attraversando.