Lavoro
SPECIALE LEGGE DI BILANCIO #3. Diversity & Inclusion
Di Massimo Gentile
«La decontribuzione per le lavoratrici al rientro dalla maternità deve andare oltre la fase sperimentale» tuona Susy Matrisciano. La presidentessa della commissione Lavoro e Previdenza sociale del Senato è in prima linea sul tema della parità di genere e della difesa dei diritti delle donne. La legge di bilancio prevede molti interventi per ridurre il gap gender sotto il profilo previdenziale, salariale e professionale. Gli standard dei paesi più progrediti sotto quasto profilo, come Spagna e Austria, sono anora lontani. Ma, spiega in esclusiva al The Watcher Post: «Stiamo facendo passi avanti verso il radicamento del diritto alla genitorialità».
In tema di congedi di paternità, per la prima volta il nostro Paese con la Legge di Bilancio rende strutturale il periodo di congedo dei neo-papà, portandolo a 10 giorni. Tuttavia si tratta ancora di “giorni”. In Europa si parla invece di settimane, basti pensare alla Spagna, dove dal 1 gennaio 2022 per i giorni di congedo saranno equivalenti per entrambi i genitori e sia le mamme sia i papà avranno diritto a 16 settimane di congedo, non trasferibili e pagate al 100%). Dal suo punto di vista cosa si può fare per avvicinare l’Italia sempre più ai modelli virtuosi presenti in altri Paesi?
«Uno studio attento dei contesti nazionali virtuosi a livello europeo – e non solo, mi permetterei di dire – è uno dei modi più efficaci per scegliere con consapevolezza di applicare una misura e delle modalità con cui farlo. “Ascoltare” è il primo passo per “fare”.
Nel caso specifico di questa misura, ricordiamo che si tratta di una direzione a cui come Movimento 5 Stelle abbiamo lavorato da quando siamo arrivati al Governo in merito alla quale sono felice che oggi si faccia un ulteriore passo avanti. Lo scatto necessario adesso, in Italia, è fare in modo che si radichi il concetto di diritto alla genitorialità, un diritto del padre tanto quanto della madre, e quindi che non si consideri l’essere genitore una prerogativa esclusivamente femminile. Sarebbe un passo avanti importante verso una sostanziale uguaglianza. Pensiamo ad un esempio: se i congedi fossero ripartiti il più equamente possibile tra i genitori, avremmo molti meno datori di lavoro che ritengono accettabile, in sede di colloquio, domandare ad una donna se ha intenzione di avere un figlio».
L’art. 35 della Legge di Bilancio prevede in via sperimentale per l’anno 2022 una decontribuzione per le lavoratrici al rientro dalla maternità. Secondo lei quali effetti può avere questa misura? Creda che si possa andare oltre il 2022 e rendere la proposta permanente?
«Deve! Deve andare oltre la fase sperimentale. Mi auguro che il Parlamento e le forze politiche siano ancora più determinate in questa direzione; se la misura darà il giusto riscontro, è doveroso andare avanti. E per farlo occorre prima di tutto un cambio di mentalità. Per spiegarmi, faccio un confronto con una realtà che ho avuto modo di toccare in prima persona: quando lavoravo in un’azienda di proprietà austriaca, durante una visita della dirigenza, alla nascita di mio figlio mi è stato detto “ci vediamo tra due anni!”, perché in Austria il congedo si può estendere fino al secondo anno di vita del figlio. Se in Italia riuscissimo a far durare così tanto almeno gli sgravi fiscali avremmo già fatto un deciso salto avanti per la tutela della dignità di tante lavoratrici. Per questo sono estremamente d’accordo con la proposta del presidente INPS Pasquale Tridico, che auspica uno sgravio contributivo del 100% nei primi 3 anni per le lavoratrici che rientrano a lavoro. Si tratta di una scelta che trovo abbia il potenziale per incidere concretamente sulla vita di tantissime donne: mi ferisce profondamente pensare quante di noi sono costrette ogni giorno nel prendere decisioni fondamentali e personali come la maternità a doverlo fare con la calcolatrice in mano».
Un altro tema molto dibattuto nelle ultime settimane è quello della parità salariale. Sappiamo che recentemente il Parlamento ha approvato una legge in materia (che è entrata in vigore lo scorso 3 dicembre) e che la Manovra aumenta da 2 a 52 milioni di euro annui il finanziamento del Fondo per il sostegno alla parità salariale di genere. È fiduciosa sul funzionamento di queste misure per il raggiungimento concreto dell’obiettivo?
«Sono estremamente fiduciosa, per quanto il lavoro in questa direzione non possa neanche lontanamente dirsi concluso. Sono anche convinta che si tratti di un traguardo non solo al fine del raggiungimento degli obiettivi relativi alla parità di genere, ma che sia un passaggio fondamentale di un impegno ben più ampio volto alla tutela della dignità di chi lavora in Italia e che passa per provvedimenti essenziali quali parità di genere, valorizzazione delle competenze e salario minimo».
Per premiare le aziende virtuose sul fronte dell’inclusione è necessario però prima misurare. PNRR e Legge di Bilancio prevedono l’introduzione della certificazione della parità di genere. Quali sono secondo Lei le aree imprescindibili che è necessario misurare e certificare nelle aziende pubbliche e private al fine di comprendere il grado di avanzamento delle politiche interne di genere?
«Sicuramente la parità retributiva è la punta dell’iceberg, e ci si può avvicinare molto a raggiungerla attraverso l’introduzione di un salario minimo, ricordando sempre che le donne costituiscono gran parte dei lavoratori poveri in Italia. Per quanto riguarda la valutazione delle aziende, naturalmente non ci si può poi fermare ad una valutazione basata solamente sulla parità retributiva: esiste tutto un sottobosco di comportamenti più o meno facilmente individuabili, che ancora oggi vengono impiegati per operare una diminutio, a volte anche inconsapevole ma non per questo meno deprecabile, della dignità delle lavoratrici. Proprio perché la materia è così cruciale e perché so bene che i tempi legislativi italiani non sempre garantiscono la difesa della dignità dei cittadini, ho chiesto – grazie al mio capogruppo in Senato – ed ottenuto che il provvedimento di riforma al decreto legislativo 11 aprile 2006, ossia il codice delle pari opportunità tra uomo e donna, diventato legge pochi giorni fa, venisse discussa in sede deliberante: significa che abbiamo potuto approvare tempestivamente il Ddl direttamente all’interno della commissione Lavoro pubblico e privato, previdenza sociale di cui sono Presidente, senza dover replicare il provvedimento nell’aula del Senato, come previsto in sede referente. Questo perché c’è stata l’unanimità da parte dei gruppi di voler velocizzare questo percorso. All’interno di questo provvedimento c’è un articolo (il secondo) che ridefinisce il contenuto dell’atto discriminatorio, affermando con chiarezza che costituisce discriminazione ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro può porre il lavoratore in posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori oppure può limitarne o le opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali o all’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera. A tutti questi comportamenti occorre prestare la massima attenzione e agire con forza per prevenirli e per comminare sanzioni quando vengono posti in essere. Non è infatti più tollerabile trattare con superficialità piaghe sociali che hanno un impatto concreto sulla vita di milioni di donne, sia che si tratti di comportamenti meno espliciti, sia che si tratti di ancora più vistose ingiustizie, come la differenza salariale. Di queste battaglie, come Movimento 5 Stelle, ci facciamo portatori sin dal Decreto Dignità, nel “lontano” 2018, ossia ben prima che la pandemia Covid rendesse ancora più evidente la necessità di un intervento statale a supporto delle condizioni di vita di tantissime lavoratrici e lavoratori. Oggi quelle stesse battaglie di dignità portano il nome di “Salario Minimo”».
A tal riguardo Valore D, la più importante associazione di imprese in Italia, già da qualche anno ha messo a disposizione delle aziende l’Inclusion Impact Index, uno strumento volto proprio a scattare una fotografia interna circa il grado di inclusione. Pensa che da questo punto di vista ci possa essere uno scambio e un confronto costruttivo anche con il mondo associativo (ad esempio Valore D) e con quello privato che già utilizza strumenti di misurazione?
«Il sistema Italia se vuole progredire in maniera sensibile deve dotarsi di un proprio strumento in grado di misurare il grado di inclusione e non discriminazione (di genere e non solo) all’interno delle imprese. È necessario perché si tratta del minimo da cui partire per far sì che questi valori permeino con forza tutto il meccanismo politico e aziendale italiano. Ricordo che esistono già – soprattutto nelle grandi aziende – dei KPI (Key Perfomance Indicators) riguardanti altre tematiche, come infortuni e ambiente: quindi perché non introdurne anche sulla partita di genere? Fermo restando ciò, il dialogo con realtà virtuose già impegnate sul punto è sempre occasione di crescita; nel Movimento 5 Stelle abbiamo sempre utilizzato la partecipazione come metodo di lavoro. Infatti, l’intelligenza collettiva non deve essere considerata come la somma dei singoli saperi ma è piuttosto il risultato di processo di costruzione della conoscenza dinamico e partecipativo che fa dell’ascolto il primo momento di reale progettazione. Per cui assolutamente benvenga il confronto ed il dialogo quando fatto da persone e realtà che vogliono trasformare e migliorare il nostro tessuto sociale».
Piano strategico nazionale per la parità di genere. La convince la struttura generale del piano?
«Trovo estremamente efficace che la struttura del “Piano Strategico nazionale per la parità di genere” sia incentrata su Lavoro – Reddito – Competenze – Tempo – Potere perché si tratta effettivamente dei pilastri su cui si fondano le disparità tra uomo e donna nel nostro Paese e perché aiuta ad inquadrare correttamente il problema: a me, per esempio, ripensare che in termini di partecipazione femminile al mercato del lavoro, qualità e segregazione dell’attività lavorativa in differenti settori, l’Italia si posiziona al 28° (e ultimo) posto in Europa mette profonda tristezza e rabbia. Ma mi motiva anche a continuare le battaglie che sono ancora necessarie, magari perché prendendo le mosse proprio da questi 5 elementi, sono sicura sia possibile arrivare a scardinare l’intero sistema di disuguaglianze. Bisogna allora darsi da fare con forza sugli aspetti in cui siamo più manchevoli, a partire dallo sviluppo di competenze, il primo fondamento della dignità lavorativa di ogni individuo: il divario di genere nei percorsi di studio STEM (science, technology, engineering and mathematics), dove la componente femminile si attesta solamente intorno al 27% è un dato estremamente allarmante, se si conta che il progresso tecnico e l’industria 4.0 e 5.0 necessitano esattamente di lavoratrici con queste competenze. Allo stesso tempo occorre naturalmente continuare a lavorare su quelli in cui già siamo a buon punto: per esempio, il fatto che la presenza femminile negli organi di amministrazione delle società quotate in Italia si avvicini al 40%, superando la media europea, è un dato che fa ben sperare, ma che non deve distogliere dalla necessità di un forte impegno a tutela di tantissime lavoratrici che invece versano in condizioni di povertà, nei confronti delle quali l’introduzione di un salario minimo è, oggi più che mai, un dovere morale».
Il Consiglio dei Ministri dello scorso 3 dicembre ha approvato un disegno di legge che introduce disposizioni per la prevenzione e il contrasto del fenomeno della violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica. Sul tema vi è un articolo ad hoc anche nella Manovra. Siamo sulla strada giusta per combattere in maniera decisa finalmente questa piaga sociale?
«La strada giusta è solo quella che porterà a rendere queste profonde problematiche sociali solo un terribile ricordo. Sono particolarmente soddisfatta, come credo dovremmo essere tutti, dell’approvazione perché il testo accoglie proprio alcune proposte che la Commissione d’inchiesta sul femminicidio ha avanzato, in base agli approfonditi studi che abbiamo realizzato. Si è data una risposta concreta basata sull’osservazione di una serie di esperienze tragiche. Ovviamente ogni passo che è possibile compiere in questa direzione è un prezioso tassello verso questo risultato, ma ogni tassello da solo, sfortunatamente, non ha la forza di porre un argine ad un fenomeno così drammaticamente radicato nella nostra società. É però importante continuare a posarne, e sento di poter dire che questo sta avvenendo: non ancora con la velocità e con la costanza che auspico, ma come Movimento 5 Stelle abbiamo lavorato, stiamo lavorando e continueremo a lavorare affinché ciò avvenga».
L’incremento di 5 mln di euro dal 2022 a supporto del Piano strategico nazionale contro la violenza di genere è sufficiente secondo lei?
«No, non è purtroppo sufficiente. È impossibile negare che si tratti di uno stanziamento importante, ma è soltanto un passo ulteriore nella giusta direzione. Ricordiamo che oggi con la parola violenza intendiamo – e cito la Dichiarazione ONU sull’eliminazione della violenza contro le donne – “ogni atto di violenza fondata sul genere che provochi un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà” oltre che tanti atti legati strettamente al mondo del lavoro come mobbing, impedimento dell’avanzamento in carriera, azioni volte a rendere più difficile la vita ed il lavoro di una donna all’interno del contesto lavorativo”. Proprio perché la violenza può assumere così tante forme, occorre agire a tutto tondo per abbattere l’intero meccanismo che la incentiva, sia in ottica di prevenzione che di giustizia: per questo, ad esempio, come Movimento 5 Stelle abbiamo introdotto già dal 2019 il Codice Rosso, ossia il meccanismo per cui reati di questo tipo non venivano affrontati dalla Giustizia italiana con la priorità che meritano: in questo modo chi ha subito violenze viene sentito entro poche ore, così da poter bloccare subito l’aggressore ed evitare il peggio. E, sempre per questo, in previsione della prossima legge di bilancio, abbiamo proposto una serie di emendamenti che vanno ad incidere nel processo che porta ad una sostanziale parità, come ad esempio l’integrazione e il miglioramento della struttura con cui vengono gestiti e regolati i fondi ad hoc destinati alla lotta contro la violenza di genere».
Ritiene che sul tema “violenza di genere” la Manovra rappresenti un passo avanti concreto verso l’allineamento con la Convenzione di Istanbul?
«Oggi serve ragionare in ottica di lavoro sinergico. Più che allinearsi a un provvedimento dall’alto valore sociale, è opportuno pensare a come ciascuna azione possa costituire un passo nel cammino della sostanziale uguaglianza. L’art. 8 della Convenzione di Istanbul dopotutto richiede esplicitamente che le Parti stanzino “risorse finanziarie e umane appropriate per un’adeguata attuazione di politiche integrate, di misure e di programmi destinati a prevenire e combattere ogni forma di violenza”. Ecco, questa è una nuova occasione per farlo, per tornare a rileggere quel documento di altissimo valore che è la Convenzione e ricordarci che dalla sua stesura sono passati ormai dieci anni: quello che facciamo oggi forse non è ancora all’altezza di quelle parole; dobbiamo quindi darci una forte mossa».