Lavoro

Salario minimo un traguardo? I dubbi della sinistra radicale

16
Agosto 2022
Di Giampiero Cinelli

Il 7 giugno 2022 il Consiglio europeo e il Parlamento europeo hanno trovato un accordo provvisorio sulla bozza di direttiva, recante l’introduzione del salario minimo legale in UE. Ora il testo definitivo dovrà essere approvato e successivamente ratificato dai parlamenti nazionali, che avranno tempo due anni per recepire la direttiva. L’intesa è stata accolta con molto favore dall’opinione pubblica, dai partiti e soprattutto dai sindacati. Ma in alcuni ambienti, anche accademici, ascrivibili al mondo della sinistra più radicale, dei dubbi sulla reale bontà del provvedimento restano. Vediamo perché.

Il presupposto di partenza

Punto fondamentale è che in Italia esiste già la contrattazione collettiva e diverse categorie di lavoratori, pubblici e privati, beneficiano dei contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl), ovvero tipologie contrattuali relative ai settori specifici, negoziati dai principali sindacati con i governi. All’interno di questi contratti il livello delle retribuzioni e i loro aumenti automatici sono fissati per legge. Si potrebbe dire quindi che gli addetti in molti comparti sono già tutelati da una sorta di salario minimo. E la loro busta paga è integrata da altri elementi, come ad esempio il Tfr (trattamento di fine rapporto), la tredicesima, la quattordicesima, i bonus, i premi produzione etc. Questo meccanismo di protezione all’interno del mercato del lavoro coinvolge la maggioranza degli occupati, ma si stima che un 20% ne sia escluso e abbia rapporti lavorativi al di fuori della contrattazione collettiva. I cosiddetti “contratti pirata”, per lo più precari e poco vantaggiosi economicamente. Importante specificare che il recepimento della direttiva non costituirebbe delle prescrizioni vincolanti sulle cifre dei salari, che differirebbero nei vari Paesi, né vi sarebbero particolari indicazioni per le nazioni che hanno già la contrattazione collettiva. Bensì l’intento è promuovere adeguamenti e aggiornamenti nel quadro della contrattazione collettiva o nei sistemi a salario minimo (ogni due anni o al massimo ogni quattro per chi ha i Ccnl). Auspicando che la contrattazione collettiva non sia disincentivata. C’è però chi vede possibili risvolti negativi nel lungo termine, qualora le condizioni strutturali dell’economia europea dovessero declinare nel tempo.

Quali sono i rischi

Secondo un certo filone di analisi, i contratti collettivi nazionali sarebbero molto più sicuri rispetto a una dimensione in cui predomini il salario minimo legale. Innanzi tutto, perché non si sa ancora quale sarà la sua entità. Si era parlato in Italia di 9 euro l’ora ma potrebbero essere anche di meno. I parametri entro cui stare saranno almeno il 60% del salario mediano lordo nazionale e il 50% del salario medio lordo nazionale (valori indicativi Ocse riconosciuti a livello internazionale). Poi, non è implicito che le cifre saranno oggetto di scatti automatici, così come per i salari dei Ccnl. Per adesso sono contemplati soltanto aggiornamenti periodici. Inoltre, non è previsto obbligatoriamente nel testo della direttiva (anche se ciò viene auspicato), tutto quell’insieme di integrazioni al salario che abbiamo menzionato prima. Queste rimarrebbero a discrezione dei legislatori nazionali. Il timore, insomma, è che una potenziale sostituzione graduale, della contrattazione nazionale con la retribuzione minima legale, generi un livellamento verso il basso dei redditi e delle condizioni sociali. Questo perché un datore di lavoro potrebbe scegliere comunque di non ricorrere al contratto collettivo. Privando di vantaggi che vi sarebbero nel Ccnl migliorato dal salario minimo legale.

Le altre perplessità

Altri punti controversi della direttiva riguardano la determinazione delle retribuzioni minime. Al comma 1 dell’Articolo 6 si legge: “Gli Stati membri possono autorizzare salari minimi legali diversi per specifici gruppi di lavoratori. Gli Stati membri mantengono tali variazioni al minimo e garantiscono che ogni variazione sia non discriminatoria, proporzionata, limitata nel tempo, se pertinente, e obiettivamente e ragionevolmente giustificata da un obiettivo legittimo”. Oltre alle possibili variazioni, c’è anche il nodo delle trattenute. Il comma successivo, infatti, dice: “Gli Stati membri possono consentire trattenute per legge che riducono la retribuzione versata ai lavoratori portandola a un livello inferiore a quello del salario minimo legale. Gli Stati membri garantiscono che tali trattenute sui salari minimi legali siano necessarie, obiettivamente giustificate e proporzionate”. 

Ma in base a quali criteri fissare il salario minimo? La direttiva ne indica quattro: a) il potere d’acquisto dei salari minimi legali, tenuto conto del costo della vita e dell’incidenza delle imposte e delle prestazioni sociali; b) il livello generale dei salari lordi e la loro distribuzione; c) il tasso di crescita dei salari lordi; l’andamento della produttività del lavoro. Il quarto criterio è quello che desta più preoccupazione tra i critici. Perché se va tenuto conto dell’andamento della produttività, sappiamo che l’Italia in merito ha criticità strutturali.

Che fare dunque

Bisogna anche notare come un eventuale innalzamento del livello delle retribuzioni, grazie all’introduzione del salario minimo, potrebbe paradossalmente rivelarsi anzi deleterio per il sistema economico italiano in generale. Questo perché, un pur ben accetto aumento della ricchezza, deve crearsi di pari passo con l’incremento della produttività e della competitività delle imprese. In assenza di ciò si verificherebbero contraccolpi deludenti. Motivati dalla evidente disomogeneità esistente nei vari settori, con aziende più e meno efficienti. Quelle efficienti e solide sarebbero capaci di sostenere senza problemi un aumento del costo del lavoro, mentre quelle meno efficienti avrebbero danni alla produttività, alle vendite, sull’occupazione e sui profitti. Il costo del lavoro in Italia è già molto alto. Qualora il salario minimo avesse successo, questo diverrebbe in assoluto tra i più alti in Europa. Ma, banalmente, date le attuali condizioni, non ce lo possiamo permettere. Né allora è giusto appoggiare soluzioni conservatrici. Il messaggio di chi ha voluto contribuire al dibattito da posizioni meno concilianti, è invece quello di intensificare la diffusione dei contratti collettivi nazionali, mirando ad abbattere quel 20% corrispondente al nucleo non garantito dal Ccnl.

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