Lavoro

Jobs Act, la (difficile) partita che si gioca sui referendum della Cgil

17
Febbraio 2025
Di Ilaria Donatio

In una data compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno avrà luogo il referendum sui cinque quesiti ammessi dalla Consulta, di cui quattro sul lavoro promossi dalla Cgil, con l’adesione di pezzi del Pd e di altre opposizioni. 

Sul Jobs Act – che il prossimo 7 marzo compie 10 anni – la Cgil vuole portare 26 milioni di italiani alle urne: una sfida enorme, innanzi tutto per il quorum. Deve votare il 50% più uno degli aventi diritto e non è esattamente una passeggiata. Poi deve vincere il sì e se Elly Shlein è allineata con Landini, c’è tutta la componente riformista del Pd che quella riforma l’ha votata e la difende: oltre alla cancellazione dell’articolo 18, c’è tanto altro. Ci sono la Naspi, l’abolizione dei cocopro, il contrasto alle finte partite Iva e alle dimissioni in bianco. Ma facciamo un passo indietro.

Il Jobs Act e cosa è diventato
Il così detto Jobs act – che si ispira all’omonimo provvedimento del 2012, da parte dell’amministrazione Obama che però aveva caratteristiche differenti – è un pacchetto di decreti legislativi varato dal governo Renzi che, in realtà, è rimasto l’ombra di se stesso come ha fatto notare nella sentenza di ammissibilità (n.12/2025) la stessa Consulta: la Corte ha infatti ricordato tutti gli interventi operati in questi anni a modifica dell’impianto iniziale e delle sue più significative innovazioni e segnalando le minori tutele per i lavoratori quale conseguenza dell’abrogazione integrale del dlgs n.23/2015.

I quesiti
Tornando ai quesiti, nel mirino c’è innanzitutto il Jobs act per il ripristino dell’articolo 18 e quindi del reintegro nei casi di licenziamento illegittimo per i lavoratori assunti dopo il marzo 2015 (da quando sono entrate in vigore le norme del governo Renzi, che hanno introdotto il contratto a tutele crescenti). Il secondo quesito riguarda la cancellazione del tetto all’indennità nei licenziamenti nelle piccole imprese. L’obiettivo è innalzare le tutele per chi lavora in aziende con meno di quindici dipendenti eliminando il limite massimo di sei mensilità all’indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato. Mentre il terzo punta all’eliminazione di alcune norme sull’utilizzo dei contratti a termine, per limitarne l’utilizzo a causali specifiche e temporanee. Infine, l’ultimo quesito riguarda l’esclusione della responsabilità solidale di committente, appaltante e subappaltante negli infortuni sul lavoro. In particolare, con il referendum si vogliono tagliare le norme che impediscono, in caso di infortunio sul lavoro negli appalti, di estendere la responsabilità all’impresa appaltante.

Ora – al netto della necessità di un intervento che rimetta ordine nella disciplina dei licenziamenti, dopo un decennio di interventi legislativi e della Corte costituzionale che hanno variamente “picconato” il Jobs Act – è un fatto che nell’ultimo decennio, da quando il Jobs Act è in vigore, non soltanto è aumentato costantemente il tasso generale di occupazione (raggiungendo il record assoluto dei 24 milioni), ma è anche aumentato costantemente il tasso di occupazione a tempo indeterminato, mentre l’occupazione a tempo determinato è rimasta sostanzialmente ferma (ed è oggi pari all’incirca alla media UE).

La Corte Costituzionale, nel comunicato del 7 febbraio in cui spiega perché ha deciso di ammettere i referendum, dice una cosa importante a proposito del primo quesito: se passasse, verrebbe ripristinato l’articolo 18. Non quello del 1970, dello Statuto dei lavoratori. Ma quello già limitato della legge Fornero del 2012. In particolare, sottolineano i giudici costituzionali, in alcuni casi, ci sarebbe “un arretramento di tutela”. Ne cita due: licenziamento illegittimo “intimato al lavoratore assente per malattia e infortunio oppure intimato per disabilità fisica o psichica”.

Spiega Filippo Aiello, giuslavorista e tra i collaboratori della Cgil nella stesura dei requisiti referendari: “Per questi due casi, l’articolo 18 prevede la reintegra e una sanzione risarcitoria attenuata, limitata, cioè a 12 mesi. Mentre la stessa Corte, nella sentenza 22 del 2024, nel caso di lavoratore in Jobs Act aveva disposto la sanzione massima, cioè il reintegro al pari di tutti i casi di licenziamento nullo”. Sentenza intervenuta, come tante altre in questi anni, per correggere le incostituzionalità del Jobs Act, anche nei due casi citati di malattia e disabilità.

Ora, se passasse il referendum, secondo Aiello e ovviamente la Cgil, si andrebbe verso l’omogeneità delle tutele che è poi l’indicazione auspicata dalla stessa Consulta. Secondo chi vorrebbe che vincesse il no, l’ipotetico (e difficile) successo del referendum porterebbe a un ritorno all’indietro: non sarebbe meglio, dicono, battersi per il rilancio di un programma di rafforzamento delle politiche attive del lavoro che allinei il nostro Paese a quelli del centro e nord-Europa e per un intervento legislativo che unifichi e semplifichi la disciplina della materia dei licenziamenti?

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