Lavoro
Io ho paura
Di Andrea Laudadio
(L’articolo di Andrea Laudadio per “L’Economista”, inserto economico de “Il Riformista”)
Io ho paura. Non lo nego, sarebbe ridicolo farlo. E poi, non credo neanche di esserne capace. Non so mentire, nemmeno a me stesso. Anzi, quando sono solo, quando nessuno mi guarda, lo ammetto apertamente: ho paura del futuro! Del mio, intendo.
Forse è l’età, quest’anno saranno 55. Non sono più così giovane, e me ne accorgo. Faccio fatica a ricordare le cose che leggo, le informazioni mi scivolano via. Se sento una parola nuova, quasi sempre in inglese, dopo poco la perdo. La concentrazione mi sfugge. E l’idea di dover tornare a studiare, di passare ore sui libri, mi terrorizza. Io ho paura. Ho paura di perdere il lavoro, di essere sostituito dall’intelligenza artificiale, di svegliarmi un giorno e accorgermi che non servo più. Di trovarmi fuori dal mercato, senza un ruolo, senza un’identità professionale, senza un modo per ricominciare. E proprio adesso, con i figli che crescono, con le spese che aumentano, con mia figlia che l’anno prossimo inizia l’università. Io ho una fottuta paura di perdere il mio lavoro.
Eppure, il mio lavoro non mi piace. Non l’ho scelto, ci sono finito dentro. Un’altra epoca, un altro mondo. Non come oggi, con le aziende che si contendono i neolaureati. Io l’università non l’ho neanche finita. Ho trovato questo posto in un call center, doveva essere una parentesi, dopo un ultimo esame andato male, un passaggio. Ma poi sono rimasto. Alla macchinetta del caffè ho smesso persino di lamentarmi. Mi dico: il mio lavoro non mi piace, ma mi piace quello che ci posso fare con i soldi che guadagno. E ha pure i suoi lati positivi. Quando stacco, stacco davvero. Nessuna email, nessuna chiamata dei capi, nessun collega che ti cerca anche nel weekend. Non come mio fratello. Lui, anche quando viene a trovarci la domenica, non riesce a stare lontano dal telefono.
Ed è stato proprio lui a mettermi questa paura in testa. Rideva, mentre lo faceva. Non per cattiveria, ma perché si divertiva. Eravamo a pranzo, seduti vicini. Con una mano reggeva la forchetta, con l’altra il telefono. Mi faceva vedere l’ultima AI a cui si era abbonato. Un avatar diceva lui, che prendeva informazioni da altre AI. Gli faceva domande e quello rispondeva. Rapido, preciso, impeccabile. Mio fratello ha sorriso e mi ha detto:
“Altri sei, dodici mesi e il tuo lavoro lo faranno queste applicazioni qui.”
Ho sorriso anch’io, ma da quel giorno quell’idea mi è rimasta incastrata in testa. Forse si è accorto della crepa che aveva aperto, perché poi ha aggiunto: “Non ti devi far trovare impreparato. Devi studiare. Devi aggiornarti anche tu.”
Forse era sincero. Forse aveva solo paura di ritrovarsi un fratello sulle spalle. Ma io di queste cose non ci capisco niente. Non saprei da dove cominciare. E poi, per abbonarsi a certe cose servono soldi. Venti, trenta euro al mese. Per cosa, poi? Per non sapere neanche cosa chiedere? O forse, dovrei semplicemente domandare: “Cosa posso fare per non farmi sostituire da te?”
Ma siamo sicuri che mi risponderebbe la verità? Io, al posto suo, non so se lo farei e poi, lei – a differenza mia – la paura non sa cosa sia.
