Lavoro

Come si stanno muovendo le big companies sullo smartworking

08
Luglio 2021
Di Jacopo Bernardini

La prima è stata Twitter: nel maggio 2020 la tech company californiana ha annunciato ai propri dipendenti la possibilità di continuare a lavorare in smart working anche una volta finita l’emergenza Covid-19. In generale le big tech sono state le prime a muoversi: Facebook ha di recente esteso la possibilità di lavorare da remoto dichiarando, tramite un portavoce, di credere che “il modo in cui si lavora conta più di dove lo si fa”.

Per alcuni, però, la rotta sembra stia già per cambiare: Google, per esempio, sta riaprendo gli uffici. Il rientro sarà su base volontaria, ma per settembre è già previsto un movimento di ritorno più massiccio. Anche Amazon ha deciso per il rientro almeno 3 giorni a settimana. Alla Apple, invece, è bastato annunciare il ritorno per almeno tre giorni alla settimana per spingere circa 80 lavoratori a indire una petizione a sostegno dello smart working.

Altri colossi, come Goldman Sachs e Morgan Stanley, hanno deciso di chiudere l’era dello smart working a tempo indeterminato, giudicando il ritorno in presenza indispensabile. Il dilemma del rientro ha importanti ricadute economiche su un vasto indotto: bar, ristoranti, e soprattutto il mercato immobiliare degli uffici. Ma quali sono stati gli effetti della pandemia sui prezzi e sul tasso di occupazione degli spazi direzionali nelle principali città del mondo?

In generale, negli ultimi 18 mesi la domanda e, di conseguenza, i prezzi degli edifici, non hanno subito contrazioni come qualcuno temeva. Questo per due principali motivi. In primis, dal lato dei conduttori, perché la diffusione del Covid non ha completamente fermato la domanda di spazi ma ha imposto un cambio di paradigma. Le parole d’ordine sono diventate: tecnologia, flessibilità e sostenibilità.

In secondo luogo, dal lato degli investitori, la domanda di uffici non è crollata perché i capitali istituzionali, anche a causa della politica monetaria della BCE caratterizzata da bassi tassi di interesse, hanno aumentato l’allocazione verso asset class alternative come l’immobiliare con rendimenti che si sono mantenuti relativamente bassi (3% il prime yield a Milano).

Questa dinamica vale in particolare nelle città che, a livello globale, continuano ad essere attrattive: per i migliori “cervelli”, i top manager, i grandi eventi, le sedi delle principali società e istituzioni. Il trend, durante la pandemia, si è rallentato ma non arrestato: i fondi di investimento ragionano sul medio-lungo periodo e hanno valutato che le grandi metropoli, negli anni a venire, continueranno a rimanere poli di attrazione.

E in Italia qual è la situazione? “Ciò che è successo nell’ultimo anno ha avuto un effetto visibile sul mercato immobiliare”, spiega Carlo Vanini, Head of Capital Markets per l’Italia di Cushman & Wakefield, società leader a livello globale nei servizi immobiliari, con oltre 50mila dipendenti sparsi in 400 sedi nel mondo. “Il modo migliore per accorgersene è guardare al “take-up”, ovvero il numero di mq affittati all’anno. Nel 2020 c’è stata riduzione nelle due principali città italiane, sia a Milano (da circa 450mila mq assorbiti nel 2019 – record sempre – a circa 280mila) che a Roma (da circa 250mila nel 2019 a circa 120mila)”. Ma la situazione si è evoluta con estrema rapidità. Gli uffici hanno ricominciato a popolarsi, cambiando pelle. “Il futuro sarà ibrido: non ci sarà una soluzione univoca, ma ogni azienda, a seconda delle esigenze, adotterà una soluzione diversa. Viviamo ancora una fase di transizione, molto dipenderà dall’evoluzione del contesto macroeconomico: ciò che è sicuro è che l’ufficio sta cambiando totalmente aspetto, da posto di lavoro diventa un punto dedicato allo scambio di idee e alla condivisione”, prosegue Vanini.

Le due metropoli vivono però situazioni molto diverse. Al momento, a Milano sono numerosi i progetti e le riqualificazioni in corso d’opera: ci sono i cantieri delle torri in via di sviluppo: Gioia22 in Melchiorre Gioia, che Coima sta realizzando per Ubi (una volta completato il grattacielo, a fine anno, avrà un valore di quasi 500 milioni di euro) e la torre Unipol a Porta Nuova, disegnata da Mario Cucinella: 23 piani per una altezza di 120 metri complessivi. I lavori, partiti nell’ottobre del 2018, dovrebbero terminare entro la metà del 2022, oltre cento milioni di euro il valore complessivo dell’appalto dell’opera. Ci sono poi alcuni lavori già terminati, come il grattacielo Pwc, “il Curvo”, il terzo dei grattacieli di piazza Tre torri a Citylife.

Un’altra novità è rappresentata dalla torre di A2A che verrà realizzata nell’ex Scalo di Porta Romana, acquistato per 180 milioni di euro dalla cordata Coima, Covivio e Prada e dove verrà sviluppato anche il villaggio olimpico per le Olimpiadi invernali Milano – Cortina. La torre, 144 metri di altezza per 28 piani, consegna prevista per il 2023.

“Milano è una città vivace dove ci sono tanti nuovi sviluppi e grandi progetti di riqualificazione urbana pensiamo ai porgetti di riqualificazione degli Scali solo per fare un esempio, mentre Roma, che ha un mercato diverso, più complicato, fa fatica a prendere questa direzione”, conclude Vanini. “La percezione è che la capitale sia una città meno attrattiva, con una domanda di spazi limitata e con immobili spesso vincolati e quindi più complicati da riqualificare: questo spaventa gli investitori. Ma sembra che anche nella Capitale qualcosa stia cambiando con alcuni investitori che negli ultimi anni hanno fanno partire importanti progetti di investimento. Pensiamo alle Torri dell’Eur, all’ex Poligrafico in Piazza Verdi, al Bulgari Hotel a Piazza Augusto Imperatore, al W Hotel in Via Liguria, al nuovo Rosewood Hotel a via Veneto. Questi sono importanti segnali che la città può attrarre investimenti che possono aiutarla a crescere fino a recuperare quel gap che dal 2007 ha portato Milano ad attrarre tre volte i capitali attratti da Roma”.

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