Innovazione
Mafie digitali, i nuovi orizzonti della criminalità organizzata
Di Alessandro Caruso
«La guerra alle mafie? Il terreno di lotta adesso sono le informazioni e i dati digitali», lo denuncia l’onorevole Paolo Lattanzio (Pd) nel suo ultimo libro La pandemia mafiosa, strategie per un’antimafia di prossimità, edito da Rubbettino. Un volume che racconta come si siano evoluti i fenomeni mafiosi durante la pandemia, come abbiano saputo osservare e declinare alle loro esigenze le nuove attitudini delle persone e come abbiano implementato le competenze digitali per cavalcare la transizione 4.0. I fondi del Pnrr, la vulnerabilità di alcune infrastrutture sensibili e le sacche di disagio che la pandemia ha accentuato rendono lo scenario particolarmente insidioso. Ma le strategie di contrasto non mancano.
Il Covid ha scardinato i paradigmi di molti mercati. Nel caso delle attività criminali cosa è cambiato nell’ultimo anno e mezzo?
«Il Covid ha scardinato il sistema di vita delle comunità sociali e di conseguenza anche il sistema produttivo. Nel caso delle organizzazioni criminali abbiamo assistito a due fasi. La prima, in cui sono state bloccate gran parte delle attività che svolgevano in presenza, come le estorsioni, i traffici via mare e via terra, lo spaccio per le strade. Ma questa attesa vigile ha generato una seconda fase in cui si è concretizzata la strategia “adattiva”, cioè le mafie si sono adattate alla nuova situazione. Da un lato hanno pensato a come declinare nel nuovo contesto i propri affari criminali, dall’altro si sono occupate di espandersi verso nuovi settori e nuove abitudini sociali. Ad esempio, sullo spaccio di droga sono state introdotte nuove forme di contatto e raggiungimento dei consumatori. E hanno saputo osservare nuovi campi che potevano offrire opportunità, come quello della sanificazione, la ristorazione e il turismo in crisi. Si sono aperti nuovi scenari molto interessanti per le mafie, considerando il loro duplice punto di forza: la grande liquidità e la capacità di controllo del territorio. Una combinazione che ha permesso loro di intervenire in modo diretto nell’economia legale del paese».
Il fatto che il Covid abbia accentuato le disuguaglianze sociali ha comportato una ripercussione sulle attività e le strategie delle criminalità organizzate?
«Sicuramente sì, la diffusione della pandemia ha peggiorato la situazione di chi già stava male, ha colpito le situazioni di particolare fragilità che esistevano, ha impoverito famiglie in difficoltà. Questo ha comportato un rischio grande: coloro che si muovevano nell’ambito del lavoro sommerso sono più esposti a essere intercettati dagli ambienti criminali. D’altra parte con la scomparsa di molti posti di lavoro si è creato un esercito di potenziale manovalanza di grande interesse per le mafie, che possono offrire ciò che gli imprenditori sani e puliti non possono fare: una soluzione immediata ai problemi e a cifre risibili. Creano così una forma di concorrenza sleale nei confronti dell’economia sana. Il rischio che vedo non è tanto nell’economia criminale, ma è anche nel radicamento che le mafie hanno nell’economia legale».
Nel libro lei introduce il concetto di antimafia di prossimità. Di cosa si tratta?
«L’antimafia di prossimità è un approccio che tutti dobbiamo avere come cittadini prima che come attivisti dell’antimafia. È una guerra quotidiana che ogni persona onesta combatte nel proprio perimetro di azione. Si traduce nello sforzarsi di vivere in maniera onesta, evitare le scorciatoie, denunciare coloro che entrano nei sistemi criminali, a partire dal proprio quartiere. L’antimafia sociale oggi ha enormi problemi, perché non siamo più in una situazione come il 1992, ma in una dove servono le competenze, serve coinvolgere le nuove generazioni, non solo aspettando le grandi storie esemplari, ma partendo dall’impegno quotidiano di ognuno di noi. È un discorso sia territoriale sia di vicinanza ai problemi, perché se lavoriamo tutti come una sentinella di antimafia arriveremo a fare quel passo decisivo per cui non sarà più necessario avere un dipartimento antimafia. L’antimafia di prossimità deve diventare una chiave di lettura di tutti i fenomeni che ci circondano nel quotidiano».
In ottica Pnrr, quali impegni devono essere presi per tutelare le amministrazioni comunali, soprattutto quelle periferiche?
«È necessaria da un lato la mappatura dei singoli bandi, perché come sappiamo sono le amministrazioni periferiche che avranno in mano la situazione. Non tutti i comuni e le regioni sono in grado di proteggere le proprie comunità. Serve una conoscenza dettagliata dei bandi che vengono realizzati, con un forte coinvolgimento delle autorità competenti su ogni singolo bando affinché ci sia una possibilità di lettura analitica dei rischi. Allo stesso modo abbiamo bisogno di fare dialogare le banche dati affinché ci sia la possibilità vera per chi dovrà affidare una gara di appalto di prendere visione completa e veritiera delle governance aziendali, per individuare coloro che sono sotto indagine, oltre a chi è già noto per attività illecite».
Come state lavorando per evitare infiltrazioni criminali nei settori più sensibili?
«Come parlamentare con ruolo in commissione antimafia, cultura e infanzia e adolescenza, sto lavorando per rafforzare le forme di controllo e prevenzione. Qui ci troviamo sempre di fronte a quella che in maniera faziosa è stata posta come una scelta alternativa: o si velocizzano gli appalti o si fanno i controlli. Ma non è così, questo è un tentativo maldestro di porre in opposizione due esigenze che devono andare di pari passo. Noi dobbiamo rendere adeguatamente performanti gli iter di aggiudicazione degli appalti, senza rinunciare a una forma di controllo e sicurezza che non è solo verso i soldi europei ma anche verso i cittadini italiani. Nel Pnrr non è prevista una struttura di controllo specifica sulle infiltrazioni mafiose perché esiste già un’infrastruttura di stato. Noi stiamo facendo di tutto a livello parlamentare, con una sensibilità spiccata da parte del Pd, per riuscire a prevenire e dare poteri adeguati di controllo e monitoraggio per evitare di arrivare in ritardo nell’intercettare finanziamenti che stanno andando nelle direzioni sbagliate. Ho presentato emendamenti che hanno l’obiettivo di identificare il titolare effettivo di impresa, che è un primo intervento che permette di aiutare nella fase di individuazione delle società aggiudicatrici di appalti; ma sto anche lavorando sul fronte della interoperabilità tra le banche dati, perché la vera guerra alle mafie oggi si gioca su questo terreno. Non avere a disposizione tra organi dello stato le informazioni prodotte da chi lavora nel contrasto dei fenomeni criminali è una scelta pericolosa, che ci indebolisce come comunità».
Nel libro ci sono dei riferimenti al digitale. In che modo la transizione digitale può essere un’arma antimafia?
«Il libro è stato concluso e scritto entro settembre 2021 quindi si basa sull’esperienza dei primi 16-18 mesi di pandemia, già in quella fase avevo tracciato e identificato alcuni rischi che provengono dal digitale. In particolare avevo visto che in quel lasso temporale sono diminuiti tutti i reati tranne quelli informatici, dalle truffe online al furto di dati personali, fino alla vendita nel mercato nero di droghe o presunti prodotti miracolosi contro il Covid e ai reati a sfondo sessuale, soprattutto tra i minori. Non solo. Avevo segnalato una serie di rischi evidenti riguardanti attacchi a infrastrutture dello stato, questi attacchi ci sono anche stati e hanno causato una serie di blocchi delle reti strategiche come gli ospedali, come successo anche nella regione Lazio. Questi rischi di infiltrazioni digitali nelle strutture nevralgiche fanno capire come questo sia un fenomeno da guardare con grande attenzione. Possiamo dire che da un lato esiste una criminalità informatica di livello sempre più raffinato, ma questa elevata competenza inevitabilmente prima o poi entrerà in un percorso di crescita di scala e le uniche che possono pagare delle cifre elevate per avere quelle infrastrutture tecnologiche per usarle in modo minaccioso verso la comunità sono le mafie. Pochi mesi fa c’è stata una operazione di polizia internazionale che ha visto coinvolte Italia, Spagna e Malta, che ha permesso di intercettare i “muli” digitali che si spostavano da un paese all’altro per aprire conti correnti e permettere forme di riciclaggio online. Questa è la vera sfida che dobbiamo combattere, perché il perimetro di sicurezza del paese si è ampliato, non è più solo fisico, ora è anche digitale. Sulla transizione digitale sono un po’ scettico, perché se non siamo in grado di fare dialogare le banche dati allora è difficile aspettarsi qualcosa di più complesso e articolato. Rischiamo di depotenziare le nostre polizie».
A sud l’emergenza è più marcata? Quali sono le differenze tra le infiltrazioni criminali tra nord e sud?
«A sud non è più marcata, perché oggi la vera emergenza è nel nord Italia, perché è più ricco e c’è un tessuto imprenditoriale più appetibile, ci sono infrastrutture professionali più appetibili e i territori sono a elevato radicamento mafioso. Non vedo un’emergenza sud, ma un’emergenza paese, con maggiore appetibilità del nord. E poi al nord non c’è stata la possibilità di riconoscere per tempo quello che era un fenomeno che andava cambiando. Questo cambiamento ha fatto sì che adesso non è più il mafioso che va a cercare gli imprenditori. Ma sono quegli imprenditori sensibili al fascino criminale e alle scorciatoie che si avvicinano alle mafie. In questo modo sono assolutamente apprezzabili i tentativi che tutti gli attori sociali proprio nel nord stanno facendo per sensibilizzare i propri territori per costruire una rete di protezione e tutela delle comunità e delle imprese. Questo non vuol dire che a sud va tutto bene, perché le regioni meridionali continuano a essere quelle dove il reclutamento mafioso è più facile e forte. Le mafie hanno agito in modo differente nelle due zone del paese: a sud hanno continuato a presidiare il territorio e infiltrarsi nelle istituzioni, a nord sono entrate direttamente nell’economia legale. Molte aziende controllate da mafiosi non sono riconoscibili, perché sono completamente immerse in un gioco di prestanome, godono di supporti ricevuti da professionisti e di relazioni con altre imprese. Per cui è molto difficile ancora risalire alla titolarità effettiva. Ma c’è una terza stratificazione, perché le mafie sono un fenomeno europeo, e finché non affrontiamo anche a livello europeo questa battaglia con degli strumenti adeguati, ad esempio istituendo una commissione antimafia europea come proposto nel mio libro e anche dall’eurodeputata Pina Picierno, difficilmente riusciremo ad avere un approccio di sistema la fenomeno».